Ai fratelli Coen, e di conseguenza a tutto il loro cinema, non si può che volere bene.
Anche quando realizzano un film minore, o non perfettamente riuscito, è quasi impossibile lasciare la sala senza un sorriso sul volto, e nell’immediato cercare di analizzare più i pregi che i difetti. Perché va premesso, Ave, Cesare! è indubbiamente un film minore del duo, lontano dai loro lavori migliori e più ricordati. Non è un film brutto – probabilmente i Coen non sono in grado di lavorare con la mano sinistra nemmeno volendo – e nemmeno vuoto, ma sicuramente privo di una vera tematica che lo lascia alla dimensione di autentico divertissement.
Poco più di 24 ore nella vita di Eddie Mannix, il classico “fixer” che una volta avevano i grandi studios, ovvero colui che risolve tutti i problemi, sono l’unico collante di una vera e propria serie di vignette che illustrano nel dettaglio la costruzione del cinema d’intrattenimento anni ’50. E in questo film c’è davvero TUTTO ciò che un tempo era Hollywood: sceneggiature su commissione, focus group, film di tutte le sale ma sempre per famiglie e sempre leggeri, grandi registi dalle alte velleità artistiche al soldo dei produttori, matrimoni tra star combinati per far vendere rotocalchi, problemi di tutti i tipi coperti dagli studios stesi con l’unico scopo di non far mai cadere la patina di mondo dorato e la fama delle celebrità. La star non è la persona comune, il mantra del cinema anni ’50, e i Coen ce lo ricordano bene.
C’è sempre quel velo di indeterminismo e cieca casualità che fonda la poetica dei due fratelli – l’accanirsi degli eventi sulla giornata di Eddie Mannix, per quanto blandi, ricorda la sfortuna di altri celebri personaggi dei loro film – e c’è anche l’intenzione di avvicinare il protagonista ad una figura spiccatamente cristiana, con diverse inquadrature ad hoc e un boss dello studio che esattamente come Dio non si vede, ma i Coen consapevolmente non affondano mai la mano su tali temi, interessati più che altro alla descrizione di cartoline di un cinema che non c’è più. Quello che rimane di Ave, Cesare! è appunto un amore sconfinato e viscerale per tutto ciò che è racconto e cinema, anche se questa macchina di sogni è essenzialmente una grande finzione: quando la grande star inizia il coinvolgente monologo finale con incredibile intensità, commuovendo tutti i presenti, dai colleghi sul set ai macchinisti, come trasportato solo dall’emozione, una battuta dimenticata interrompe tutto e svela la natura posticcia di un atto da ripetere in automatico senza magia.
L’incredibile è che, in un film in cui si mostra il lato più spiccatamente finto e cinico dell’industria, si respiri puro cinema dal primo all’ultimo minuto e per ogni fotogramma, con quel pizzico di ammirazione nemmeno troppo nascosta. Dopotutto solo chi conosce davvero la perfezione del mestiere, senza malizia e con tanta passione, può capire il senso di ciò che si nasconde dietro al sipario: i Coen fortunatamente appartengono a questa categoria.
Emanuele D’Aniello