Sicuramente non è un film di supereroi come gli altri, questo Aquaman. Partiamo dalle ovvietà.
O meglio, lo è nella sua struttura e nella sua trama, nel percorso che affida al protagonista tutto muscoli e battute sagaci. Quella del Re di Atlantide è la storia classica presa di peso dai fumetti – soprattutto i più recenti – e quella ancora più canonica dell’eroe riluttante che, attraverso incontri, scontri, avventure e conoscenze (possibilmente amorose), abbraccia la sua missione per compiere il proprio destino.
Fin qui, tutto nella norma. E allora perché è impossibile definire Aquaman un classico cinefumetto, e anzi, è addirittura difficile catalogarlo in un genere? Perché il regista James Wan, uno che scorrendo la sua filmografia sa benissimo come compiacere i gusti del pubblico di massa, gli costruisce e confeziona attorno una cornice che più spettacolare e assurda, nel senso positivo del termine, non si poteva immaginare.
La vicenda iperclassica di Aquaman è immersa non solo nelle profondità dell’oceano, ma in un continuo andirivieni di eventi, scenari, personaggi e conflitti. Il vorticoso crescendo del film, a sua volta, è dilatato in una furiosa catena di colori, rumori, costumi e meraviglie da far girare la testa. Più che un film, Aquaman è letteralmente una gigantesca macchina che fagocita tutto ciò che crea col solo fine di creare spettacolo, senza filtri e, soprattutto, senza limiti. Più che un film di supereroi, allora, Aquaman diventa appunto un enorme film di stampo fantasy in cui Wan riesce a mettere tutto il concepibile, creando e giocando in due ore e venti minuti con mondi e personaggi che avrebbero avuto senso in due o tre film, semmai.
La cosa però più assurda di Aquaman è però il suo vero paradosso: tutti quelli finora descritti non sono difetti, ma pregi.
Veri pregi, perché la visione di Aquaman non solo si approccia con la consapevolezza di assistere ad un giocattolone, ma perché il primo a saperlo e a sfruttarne le potenzialità al 100% è proprio Wan stesso.
Tutto in Aquaman è volutamente esagerato e spinto al massimo. Tutto è onnivoro spettacolo che non deve mai far distogliere allo spettatore lo sguardo dallo schermo. Ogni momento, ogni scena deve essere un inarrestabile giro sulle montagne russe. Non bisogna mai lasciare il tempo di farsi domande, di chiedersi “ma l’approfondimento?” perché l’attimo successivo deve nuovamente stupire. Anzi, deve sopraffare nella maniera più sensorialmente completa possibile.
Passando dalle battaglie tra fantastiche creature marine alle fughe nel caldo deserto che non conosce gocce d’acqua, attraverso scenari da film di guerra fino a toccare addirittura l’horror, Wan nel film stesso cambia continuamente registro e stile, aspettative e ambizioni. Non le proporzioni, che non possono mai diminuire. Ne esce fuori un kolossal autentico, magari non epico ma certamente spettacolare, che ha l’esagitata urgenza di evolvere sempre e stupire sempre. Cannibalizzando tutto ciò che possa apparire vagamente delicato, ovviamente.
Sorprende Aquaman, perché è niente di ciò che qualcuno poteva aspettarsi. E, pur essendo così esagerato, così dannatamente e fieramente kitsch, convince al tempo stesso, perché non poteva essere altro, non poteva appiattirsi sul rischio del generico. Quasi non poteva fare altrimenti, perché il suo protagonista è l’unico che permette tali escursioni nella follia e meno serietà possibile, e qualsiasi tocco di realismo avrebbe addirittura stonato. Non poteva calmarsi, perché ci avrebbe dato tempo di vedere l’assurdo e quindi lasciando solo il ridicolo. Invece così, senza frenare mai, ci spinge con estremo gusto ai confini del grande cinema d’intrattenimento.
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Emanuele D’Aniello