Partiamo da un assunto essenziale: Alaska è un film vivo, che brama la vita e l’energia del vivere sotto tutte le sue sfaccettature, anche le più tragiche.
E’ un film che, come i suoi personaggi, non vuole fermarsi mai, non accetta di spegnersi e riflettere nemmeno per un secondo, non si arrende di fonte all’inevitabile logica. Che il regista Claudio Cupellini impianti una tale urgenza di azione in un film che, fondamentalmente, è un purissimo melodramma, è sicuramente ammirevole.
Che poi tale scelta faccia bene alla creazione del film, o invece assuma sempre di più, minuto dopo minuto, scena dopo scena, la forma di una macchina lanciata a 300 all’ora verso un burrone, senza voglia alcuna di frenare, questo è un altro discorso, ma decisivo.
Col cinema del regista romano, un vero talento emergente della forma visiva da non sottovalutare, ci eravamo lasciati 5 anni fa col bellissimo Una Vita Tranquilla, efficace parabola della tragicità della vita e del passato funesto che ritorna sempre, ritratto lucido dell’impossibilità di poter conoscere la felicità a causa delle conseguenze delle scelte che si fanno. Ecco, ora Cupellini della vita tranquilla non sa che farsene, e pur riprendendo il medesimo tema di fondo, Alaska è un’inversione cinematografica a 360° nel modo di comunicare tale malessere. Nella storia di Fausto e Nadine, due persone diverse tra loro non solo per provenienza geografica, ma unite da un forte senso di solitudine e necessità di condividere il proprio turbamento emotivo, Cupellini trova una valvola di sfogo essenziale per far passare il proprio pensiero, ma fin dall’inizio i problemi narrativi non tardano ad arrivare: nel primo incontro tra Fausto e Nadine non c’è mai quell’urgenza o quel sentimento soffuso che porta a tutte le conseguenze successive, non c’è quell’attimo, o quel semplice sguardo, che connette i due destini. Nessuno pretendeva, sia chiaro, l’inarrivabile livello di alchimia di Prima dell’Alba, probabilmente l’apice nel cinema recente nel ritratto dell’incontro tra due sconosciuti, ma senza troppo complimenti il film opta fin da subito per metodi volutamente marcati.
Alaska è una storia, questo il punto focale, che ha un bisogno clamoroso di una vera sceneggiatura: tutti i passaggi narrativi sono a volte poco credibili e altre volte forzatissimi (prendiamo l’apparizione di Marco D’Amore, eccessiva e totalmente fine a se stessa). I colpi di scena, davvero tanti, non sono mai organici e finiscono, invece di stupire e creare un emozione, per diventare tacche in una sequela artificiale e sistematica di errori esasperanti. In poche parole, la linea narrativa è formata e si regge solo su clichè.
Nella vicenda, Alaska è il nome di un locale notturno fittizio di Milano del quale Fausto diverrà co-proprietario. Ma indubbiamente il nome del locale è solo un simbolo che, richiamando l’omonimo stato americano noto per essere piuttosto duro e ostico, riporta ancora al centro la durezza della vita dei personaggi. Ma nel suo essere così didascalico, nell’essere sempre in movimento, nel preferire lo svolgimento dei fatti alle riflessioni, il film non si ferma mai ad approfondire veramente i caratteri, a cercare di capire il perchè dietro le scelte sbagliate dei protagonisti: Alaska è troppo indulgente verso due personaggi per cui è difficile, fin da dall’inizio, provare una semplice forma di empatia.
Un peccato, perchè gli interpreti sono bravissimi: Elio Germano ha questa immensa dote di essere sempre spontaneo e naturale, persino quando recita in francese, e con la sua fragilità la modella Astrid Berges-Frisbey è una vera rivelazione. Oltretutto Claudio Cupellini dimostra ancora una volta di essere un ottimo regista, semplicemente con in mano un materiale non all’altezza: le sue scelte di regia, di montaggio, il ritmo sincopato ma sempre acceso, le canzoni inserite nei momenti giusti, tutti elementi azzeccati a cui però manca la visione d’insieme. Cupellini non ha voluto ripetersi e ha scelto di allontanarsi dalla vita tranquilla, ma ha finito per creare un film pretestuoso, con un disegno da seguire a tutti i costi a dispetto dell’andamento naturale delle cose: forse, fermarsi e accettare il semplice melodramma non sarebbe stato così vergognoso.
Emanuele D’Aniello