Nell’ambito di “Mapping in the Town- sei performance nei musei di Roma”, si inserisce Myriam Laplante, una delle performer più influenti degli ultimi anni.
Artista canadese nata in Bangladesh, fa della sua arte la forma più alta di comunicazione. Il suo lavoro è una parodia del mondo, un mondo cinico e assurdo, disorientante. Le sue opere mettono in luce l’assurdità della società contemporanea invitando il pubblico a riflettere sul valore della presenza fisica nell’arte e sul bisogno di analizzare questo fenomeno.
“La Fenomenologia dell’assenza”, titolo della performance di Myriam andata in scena l’8 novembre al Macro di Via Nizza, più che rispondere a queste domande pone forti dubbi sull’arte contemporanea.
Innesca punti interrogativi che generano sempre più risposte, ma è proprio questa la ricerca dell’artista; una ricerca che spazia dalla performance, alla fotografia, dall’installazione al disegno. Myriam mette in mostra se stessa scrivendo sul muro e in modo circolare quello che sarà il titolo della sua performance.
Una volta chiuso il cerchio “recita” : “La fenomenologia dell’assenza nell’universo post-materiale dell’arte e della performance attraverso lo studio della fenomenologia…”. La frase viene ripetuta continuamente come se non avesse una fine, un punto d’arrivo. Dove inizia e dove finisce il cerchio?
Durante l’azione performativa, l’artista viene sommersa da fiori intesi come un omaggio, come un dono. Fiori colorati che coprono Myriam fino a farla scomparire. Anche qui vi è una ripetizione. Nel mentre arrivano dei cloni che si muovono con movimenti lenti, quasi a rallentatore…
E allora che dite?
Vi siete fatti ulteriori domande anche voi guardando la performance di Myriam?
Vi sono venuti ancora più dubbi riguardo all’arte contemporanea e al ruolo dell’artista nel mondo?
Per rispondere a questi quesiti abbiamo chiesto direttamente all’artista, con un’intervista che saprà soddisfare sicuramente tutte le vostre richieste.
A.F Sei un’artista molto particolare e versatile, il tuo lavoro sperimenta pittura, video, scultura, disegni, fotografia e non solo. Come è iniziato il tuo percorso da performer?
M.L. Era iniziato quando studiavo e poco dopo, anche se facevo soprattutto azioni per polaroid. Poi per anni ho fatto altre cose, più che altro dipingevo ma i lavori uscivano sempre dal quadro, dalle 2 dimensioni. Nei primi anni novanta ho sentito il bisogno di rimettermi a fare performance ma in Italia non era facile, era considerata una cosa morta, anni ’70. Le gallerie non ne volevano sentire parlare. Gli spazi alternativi erano più aperti. Dopo aver fatto la “Donna barbuta”, la “Sirena Mutante” e il “Valzer Triste”, un amico mi ha parlato di un performer tedesco e gli ha spedito foto delle mie performances. Poco dopo mi è arrivata una lettera che mi invitava a partecipare a Cluster Images a Werkleitz nella ex DDR nel 1996. Ero nervosissima, non conoscevo nessuno e soprattutto non sapevo che c’erano tanti performers in giro, ed è stata un’ esperienza fantastica. C’erano artisti come i Granular Synthesis, tutto in ex fabbriche abbandonate da poco. E da lì in poi sono stata invitata a festival in tutto il mondo. Dal 2001 lavoro anche con il collettivo Black Market International.
A.F.La tua biografia ci dice che sei canadese nata in Bangladesh, la decisione di venire a vivere in Italia è collegata anche al tuo percorso artistico? E come ti trovi in Italia per quanto riguarda l’arte performativa?
M.L. Non ho ancora deciso di vivere in Italia. Sono venuta qui da New York dove abitavo nel 1985 per riflettere un po’ se era il caso di rimanere a New York o tornare a Montréal, la mia città, e non ho ancora deciso. In Italia negli ultimi anni, la performance va molto di moda. Ma tutt’ora non è quasi mai l’artista che la fa in prima persona. E’ nata come una cosa secondo me più teatrale. L’artista trovava e dirigeva un attore o una ballerina e/o un poeta che eseguivano una azione. Negli ultimi anni, con l’influenza di Tino Sehgal, si fanno cose più elaborate, ma quasi sempre l’artista è regista. E quando se ne parla, si parla solo di Marina Abramovic e di Hermann Nitsch, roba molto rituale e narcisista.
A.F. Nell’evento di “Contemporaneamente Roma”, “Incontriamoci al museo” che è si è tenuto al Macro di Roma hai presentato una performance intitolata la fenomenologia dell’assenza, puoi raccontarci questo titolo e come nasce l’idea dell’opera?
M.L. Avevo già fatto un paio di versioni di performance-sparizione. E’ nato come un trucco di magia abbinato all’idea che l’artista che esegue una performance lo fa di persona. In generale mi piace trasformare le cose e fare dal vivo imprese che sembrerebbero impossibili. Tipo il pavimento al posto del muro, sculture sul soffitto, attraversare pareti, … e sparire. A pensarci bene, potrebbe anche essere letto come una parodia di “The artist is present”. Poi la parte “teorica”… Spesso quando sento conferenze o presentazioni mi perdo a cercare di seguire il pensiero di chi parla. O quando riesco a seguire, mi pare molto spesso che dopo tanti giri di parole tornino al punto di partenza, da lì il cerchio.
A.F. Si dice che gli alieni scrivevano in modo circolare, prima due parole che non sono apparentemente legate tra loro e che successivamente acquisiscono significato unite ad altre parole fino a comporre una frase unica. Durante la performance tu fai lo stesso. Potrebbe essere una chiave di lettura della tua opera? o comunque una tua forma di ispirazione?
M.L. Non sapevo di questa scrittura aliena. Conoscevo la versione presentata in Arrival di Denis Villeneuve, dove gli alieni fanno disegni circolari che ho trovato molto emozionanti. La prima volta che ho utilizzato una scrittura circolare era per il titolo di un libro vuoto sulla teoria della performance usato in una performance nel 2010. Anche nell’installazione “Questo soltanto e nulla più” al Ponte nel 2012, nella quale attraversavo una parete. Anzi, tutta l’installazione attraversava pareti.
A.F. Una delle cose che mi ha colpito di più all’interno della performance è la presenza di sette ragazze con il volto ricoperto da dei calchi che le rendono molto simili l’una all’altra. Cosa rappresentano?
M.L. Erano semplicemente dei cloni, con maschere identiche ma corpi diversi. Sei erano cloni e la settima tutta vestita di nero alla zentai era la mia ombra, quella che poi invisibilmente reggeva il vaso di fiori dopo la mia sparizione. Dopo che ero sparita e che la “pedanina” con il vaso di fiori è uscita di scena autonomamente, anche i cloni sono spariti, ma molto lentamente. Un movimento rallentato che prolungava la sparizione… un controsenso.
A.F. Ho notato che c’è un gioco di vuoto-pieno, di presenza-assenza, da quanti anni lo interpreti ?
M.L. Non saprei… Ho lavorato molto con i fantasmi negli anni novanta, e anche nei miei primi lavori degli anni settanta facevo polaroid di me abilmente camuffata nel paesaggio.
A.F. Nelle tue performance c’ è sempre dell’ironia. Qual’è il senso dell’ironia delle frasi sul quotidiano?
M.L. Vuoi dire le frasi del testo della performance?
Il testo era, più o meno: “Volendo analizzare la fenomenologia dell’assenza nell’universo post-materiale dell’arte e della performance attraverso lo studio della fenomenologia dell’ assenza nell’universo post-materiale dell’arte e della performance….dobbiamo iniziare con la considerazione che una dialettica futile è un preconcetto culturale basato su derivativi spaziali emergenti.”
Una totale assenza di significato può diventare significativa?
Perché il tuo ginocchio fa un rumore così strano?
Dal rapporto spazio-temporale tra la narrazione e la figuratività si evince che il contesto formale distintivo di codifica della giustapposizione è specifico al linguaggio visivo degli anni 90.
L’afflato retorico dell’antropocene ne è la prova.
La dinamica interna di queste forme biomorfe crea un senso di nichilismo che plasma un’ improbabile matrice dalla quale scaturisce una risonanza metaforica del desiderio. Per esempio, cosa sarebbe successo se Schroedinger avesse messo il suo gatto nel forno a microonde?
E se dovesse piovere?
Era una serie di assurdità, un misto di parole prese da articoli e recensioni. Succede abbastanza spesso in testi critici che lo scrittore si dimentica di mettere il soggetto o il verbo… Ne ho preso pezzettini qua e là e riattaccati a caso, intercalando alcune delle domande che mi pongo e che colleziono da anni.
L’ironia fa semplicemente parte del mio sguardo sul mondo nel quale vivo. Non posso farne a meno. Ma non fa ridere. E’ piuttosto tragico se ci pensi bene.
Alessandra Forastieri