È prassi consolidata oramai che gli artisti non contemplino più l’”art pour l’art” o comunque un approccio estetico vitale che riesca ad andare oltre il contingente. La creatività sembra relegata esclusivamente oramai a un vettore per frecciatine politicizzate e morale spicciola.
Arte contemporanea? A parte esigue raffinate eccezioni e il costrutto architettonico, assurge sempre più a un trampolino per esasperazioni visive, illusorie, prive di contenuti, con il solo scopo di colpire lo spettatore e di farlo compartecipe dell’horror vacui diffuso.
Altra via percorsa è il sentiero della morale, della retorica e della sensibilizzazione a tematiche sociali, spodestando la musa Arte dal suo trono e deputandola a mero strumento di propaganda.
La letteratura viene sempre più assemblata alla saggistica di bassa lega. Le storie narrate si accomunano, si appiattiscono nel quotidiano, private dell’input immaginifico e di una sintassi ricercata. Il giornalismo depaupera il suo spirito critico per confondersi con gli “ideali” dello schieramento politico che lo ha assoldato come mercenario. Viene svilito ogni accento che rifugga dalla consolidata nenia retorica.
La musica si viralizza e diventa un loop mediatico da talent. Opere classiche attualizzate, volgarizzate, defraudate della loro autenticità. Ovviamente con le dovute eccezioni, ma le arti pian piano si stanno assottigliando e languono.
Dove è il potere dell’immaginazione e della fantasia (prerogativa indiscussa di tutti gli intellettuali, artisti, poeti, dei secoli scorsi)? Mario Praz è uno degli ultimi uomini di cultura a tutto tondo. Linguista, giornalista, critico d’arte con un’unica matrice: la creatività. L’estroso, il bizzarro, il rilascio dei freni inibitori, lo fanno svettare tra la ratio e l’invenzione. L’autorevolezza che dona la cosiddetta sana insaniae.
Contesti storici degenerati, come ad esempio le guerre mondiali, non hanno impoverito l’arte, anzi, dall’art nouveau al funzionalismo, dal futurismo all’esistenzialismo, dal neorealismo alla dodecafonia: ogni ramo ha germogliato fecondo fino alla sterilità lassista del “nostro” contemporaneo.
Il timore degli estremi, l’appeasement post-bellico, la rottura con tutto ciò che è tradizione ha leso, eroso lentamente, inesorabilmente, il tessuto connettivo artistico. Come il partito dell’Uomo Qualunque di Giannini che si è infiltrato nel gap socio-politico, così l’”Arte dell’Uomo Qualunque” rischia il decollo.
Arte è narrazione, espressione immediata, mutuata, celata. E’ contenuto. L’arte è un onere. L’arte è contingente? Ne è sempre al di fuori e allo stesso tempo è onnipresente. È il nostro memento vitae e mori.
Nell’arte coincidono gli opposti: “il bello è il brutto e il brutto è il bello” dixit Macbeth in Shakespeare. La coincidenza tra interno ed esterno esemplare nel Medioevo dovrebbe vigere ancora nella nostra epoca dove il timore ha preso il sopravvento e l’unica cosa a coincidere (ed è drammatico) è il linguaggio scritto e parlato.
L’intento è ripristinare un certo vigore e dignità ad artisti del passato, senza retorica, ma con il rispetto dovuto a contenuti eterni, testimonianze ineludibili di un unicum umano a cui apparteniamo.
Il riappropriarsi della sensazione di andare in un’epoca attraverso un quadro, o una sinfonia, e allo stesso tempo di trovare il nostro contemporaneo in quella dimensione.
Ristabilire i ruoli tra il quotidiano e l’estemporaneo è il monito, entrambi essenziali e vitali. Non confondere il limite tra essi, e bando al politically correct e al buonismo sfrenato.
Un presupposto scenico è la vicenda legata a Bono, frontman della band U2, che recentemente è stato pizzicato per evasione fiscale (né il primo né l’ultimo), e che rivendica diritti e libertà. Ma il focus, a mio avviso, non è la polemica etica o meno. L’onestà non è merce per l’arte.
Benvenuto Cellini è un titano, ma di certo non politically correct, la sua vita non è un esempio di virtù, eppure il suo apporto storico-artistico è immane. Il rischio è che si perda la qualità dell’arte e dell’artista in questo vacuo mare magnum. La singolarità e il “particulare”.
In queste dissertazioni e opere, dove il messaggio ha un passaggio obbligato per la policy e il legame con il contingente è stretto, si obnubila il nomen omen dell’artista.
L’autorità del perfettibile umano non si disvela nel forzato buonismo e nella stentata retorica, ma nel librarsi del proprio individualismo, della propria differenza. Nel differente ritrovare ciò che è originale, nel senso stretto del termine.
L’arte non è serva di nessuno, semmai “umile ancella”, parafrasando le parole dell’Adriana Lecouvreur. La volontà è di viaggiare in questo mondo senza tempo né luogo.
Costanza Marana