Le opere di Alice Pasquini sono visibili sulle pareti urbane delle città di tutto il mondo. A Sidney, New York, Barcellona, Buenos Aires, Berlino e Marrakech e ai loro passanti la street artist ha donato le sue opere.
Alice viaggia e le sue tele sono i muri delle metropoli: la street art l’ha affascinata da sempre perché arte precaria ed effimera per sua stessa natura. Noi l’abbiamo intervistata sul CLUB CULTURAMENTE di Clubhouse e qui vi riportiamo la nostra chiacchierata.
Come è nata la tua passione per l’arte?
Quando avevo tre anni e mi chiedevano cosa volessi fare da grande rispondevo la pittrice, mentre tutti i miei coetanei dicevano di voler diventare astronauti, attori o veterinari. Chiaramente avevo scelto la pittrice perché era l’unico mestiere riguardante l’arte che all’epoca conoscevo. Quindi l’arte l’ho sempre avuta dentro.
Sei stata molto precoce: già a tre anni sapevi cosa saresti voluta diventare da grande. Come si arriva da una passione generica per l’arte alla passione specifica per la street art?
Ho fatto tutto il percorso scolastico “giusto” che ci si aspetta da un’aspirante artista: il Liceo artistico, l’Accademia delle belle arti, perfino un Master in critica d’arte… Non mi sono fatta mancare nulla.
Poi è venuto l’amore per la street art e questa mia passione era in contrasto con l’Accademismo. La mattina dipingevo la modella con la tela sul cavalletto, con il mio professore che entrava dicendo “L’arte è morta con Duchamp, finirete a Via Margutta (strada di Roma con le botteghe artistiche commerciali, ndr)”. Nel frattempo, io e miei amici adolescenti eravamo alle prese con la cultura hip hop: c’erano i graffiti ancora prima della street art.
Questa controcultura, che si era sviluppata in America nei ghetti, nelle periferie, nei quartieri dormitorio, è stata rivoluzionaria, perché diceva ai giovani che anche chi non era andato al conservatorio o a scuola poteva cantare o fare musica, ballare. Il passaggio in strada è stato quindi una scoperta giovanile che mi ha portato prima di tutto a imparare la tecnica dello spray, che nessuno poteva insegnarmi a scuola e poi anche a trovare un’arte più reale, a stretto contatto con la città, con le persone, che mi faceva sentire viva.
Ho iniziato così, senza nessuna prospettiva lavorativa.
Successivamente mi sono resa conto che le cose che dipingevo nel mio quartiere piacevano alle persone. Agli inizi del 2000 poi la street art è esplosa grazie ai social e alla condivisione delle opere. Nasce l’interesse del pubblico e, di conseguenza, un mercato. Da sottocultura illegale comincia a essere riconosciuta come forma d’arte.
Essendo stata io una delle prime donne al mondo a dipingere su grandi superfici, hanno iniziato a chiamarmi da tutto il mondo varie istituzioni. Così è diventato il mio lavoro.
Chi l’avrebbe detto che quella tredicenne avrebbe dipinto muri sempre più grandi!
La street art è appunto come sottolinei tu “illegale”. Come ti sei comportata tu per far fronte a questo problema?
Intanto io ho fatto una cosa che nessuno ha mai fatto: ho sempre firmato con il mio nome e cognome. Questo significa che se da un lato ho esposto e collaborato con grandissime realtà istituzionali come i Musei capitolini e la Collezione Farnesina – ho anche una voce nella Treccani – dall’altro lato ho un provvedimento penale per imbrattamento. Questo è il filo di contraddizione su cui si muove questa arte. Se da una parte i politici invocano gli street artist per la riqualificazione di aree urbane degradate, dall’altra fare graffiti continua ad essere illegale. Banksy ha più di una causa aperta, così come ce l’ha Obey.
Io in quanto donna non sono mai andata in giro di notte da sola, un po’ per una questione di sicurezza un po’ per la tecnica che uso: dipingere a mano libera richiede molta luce. Andavo all’ora di pranzo a dimostrazione del fatto che non stessi facendo nulla di male.
Per quanto riguarda il muro, che è la tua tela, come lo scegli?
In generale l’arte femminile è relegata a piccoli interventi. La mia novità è invece scegliere superfici enormi. La scelta del muro è fondamentale perché lo ‘spot’ dove si dipinge influenza lo stile, il soggetto e i colori dell’opera che io creerò. Il muro mi ispira: è un supporto unico ed è alla mercé dei passanti e delle persone. La street art è un’arte precaria, esposta al mondo.
A questo proposito sai se qualcuno ha “rovinato” una tua opera?
Ribadisco che la street art è un’arte precaria. Si sa in partenza che i muri vengono abbattuti, ridipinti ed è giusto così. I miei followers su Instagram mi avvisano, ma in realtà a me la questione non preoccupa.
I piccoli interventi, invece, possono rimanere per tantissimi anni ed è molto commovente.
Se io oggi volessi fare un tour delle tue opere a Roma, dove dovrei andare?
A Londra nel 2010 mi sono imbattuta in un tour della street art e in quel momento mi sono resa conto che questa forma di arte non faceva più parte della cultura underground.
Noi artisti comunque non siamo molto favorevoli alle mappature, soprattutto delle opere piccole, perché si perde l’effetto sorpresa. Le mie opere più grandi si trovano al Quadraro, a Casalbartone, San Lorenzo e Torpignattara. Sia sul sito del comune di Roma che su Instagram con l’hashtag #alicepasquini potete trovare tantissime info.
Come mai hai deciso di dipingere”il femminile”?
Nella storia dell’arte siamo abituati a opere che raffigurano donne dipinte da uomini. Le donne, al contrario, non hanno mai avuto l’opportunità di essere artiste, a parte qualche rara eccezione.
Dagli uomini la donna viene sempre rappresentata in situazioni fittizie. Io invece ho scelto di immortalare le donne in momenti quasi ‘sospesi’. Le mie opere arricchiscono la città ed educano ai sentimenti, ponendosi contro il cinismo della società.
Dal punto di vista tecnico quali accortezze usi? Quanto tempo impieghi per realizzare un’opera?
Per quanto riguarda i muri commissionati, c’è tanto tempo – anche 10 giorni – ma io preferisco metterci di meno, per fare in modo che l’opera conservi la spontaneità. Dal punto di vista tecnico in senso stretto bisogna, nella fase di realizzazione, tenere conto delle proporzioni: io dipingo frontalmente un’immagine che verrà vista invece dal basso, quindi devo forzare un po’ la mano. Il fondo lo faccio con rulli e vernici, poi uso lo spray a mano libera. Lavoro su un braccio meccanico e la gente si ferma sempre a guardarmi scioccata.
Gli interventi in strada, piccoli, vulnerabili, li eseguo con spray e uno stencil a cui poi aggiungo dettagli. I luoghi scelti sono molto degradati, perché amo il contrasto che si crea tra l’opera realizzata con tutti i crismi e il luogo degradato.
Qual è il messaggio che trasmetti ai giovani che vogliono iniziare questo percorso, che vogliono vivere di arte?
Io invito sempre i ragazzi a cercare la propria strada. La sfida è trovare uno stile che renda l’autore riconoscibile anche in assenza di firma.
A cura di Valeria de Bari, Veronica Bartucca e Micaela Paciotti
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