“Napoli Milionaria”, la meschinità dell’uomo comune nella commedia di De Filippo

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Vedere un’opera di Eduardo è sempre un piacere per il cuore, sarebbe necessario farlo come medicina. La sua figura è così istrionica che sono superflue tutte le parole per descriverlo o raccontarlo, lo si può comprendere e, si spera, capire, soltanto guardandolo con attenzione.

Napoli Milionariaè una commedia in tre atti del 1945, prima opera della raccolta “Cantata dei giorni dispari”. È una commedia dal sapore amaro, uno spaccato che mette a nudo tutte le bassezze e le crudeltà dell’uomo con una naturalezza sublime ed uno stile maestoso.

Eduardo è maestro in questo e riesce a trasmettere quel suo pesante giudizio estremo sui punti nevralgici della vita attraverso personaggi e frasi che apparentemente sembrano non poter essere in grado di far altro che lasciarsi vivere. Lo spiega già nel prologo che si andrà sul tragicomico e difatti sarà più mesto che mai, per tutta l’opera non farà quasi mai un sorriso!

I primi due atti sono chiarificatori della situazione

Dal vivere la tragedia della guerra e quella della fame ai sotterfugi per campare e tutti i conseguenti rovesci della medaglia.

La scena del finto morto è il momento più alto del primo atto. Eduardo, nei panni di Don Gennaro, è il padre di questa povera famiglia che, depredata dalla guerra, si trova in miseria ed ogni membro della famiglia è figlio, è conseguenza di questa miseria. Ognuno deve adoperarsi a modo proprio per cercare di resistere. 

Don Gennaro, dicevamo, alla visita del brigadiere che è costretto ad intervenire per arrestarlo a causa dei malaffari della moglie, non ha alternative e si finge morto con rispettiva veglia funebre attorno. Superato il velo della commedia, questa scena è emblematica ai fini della comprensione del lavoro sul piano emotivo.

E sarà ancor più commovente lo stesso brigadiere che dopo mille insistenze, pur avendo smascherato il tutto sin da principio, fa finta di esserci cascato ammirando il gesto quasi eroico del protagonista che, nonostante i bombardamenti, le litanie delle donne attorno ed altri elementi di disturbo, riesce a portare con onore a termine la parte pur di non dover perire.

Circa a metà commedia, accade l’evento principale: Don Gennaro viene fatto prigioniero di guerra dai soldati e sparisce.

La condanna di Eduardo sta tutte nell’evolversi delle vicissitudini che accadono in sua assenza e riguardano i vari tentativi di rinascita della famiglia (ognuno cerca di trovare il modo migliore per vivere salvo trovarne uno onesto).

Al suo ritorno, Gennaro è distrutto, è stanco e cerca, ma soprattutto spera, di trovar conforto nei suoi cari. Quel che ritrova sarà per lui drammatico.

Nessuno lo vuole, sembrano quasi offesi dalla sua presenza, c’è addirittura chi stenta a riconoscerlo, non lo aspettavano più ed ora è fuori luogo; i volti son tutti concitati, allegri, fremono di vita perché sembrano vivere una rinascita, ma lui no, lui ha il volto provato dalla guerra vissuta, lui ha la faccia scavata dal dolore, dalla stanchezza e ancor di più dalla delusione nel vedere gli occhi dei suoi cari un tempo spenti e ora così tanto accesi da non accorgersi della sua presenza. 

La moglie lo tradisce e per far fortuna ha scelto strade poco oneste al fine di arricchirsi, suo figlio si è ormai dato alla malavita, la figlia è malafemmina, gli amici sono tutti allegri e boriosi.

Tutto ciò è ancor più chiaro e magistralmente ripreso nel momento del pranzo: a nessuno importa nulla di quel che lui racconta e chiunque lo ascolti torna poi ad ignorarlo e a parlare dei propri affari.

Finché non si vive in prima persona una situazione non ci si interessa

Finché non si tratta del proprio seminato, non importa, finché è possibile ledere, parlar male, infangare l’altro è tutto facile, bello e comodo.

Questo è l’uomo, niente di più niente di meno.

A guerra nun è fernuta” ripete Gennaro mentre osserva tutto, in contrasto con chi invece credeva davvero fosse finita, poiché seppur conclusa in termini pratici, porta dietro degli strascichi enormi di carestia e fame forse maggiori rispetto a quando era in atto; ma la sua sentenza è senz’altro un eco sulla vita, poiché egli vuole affermare che in sostanza alla vita stessa non c’è un rimedio dal momento che non esiste la comunione tra uomini; il soggetto si interessa dell’altro e si pone dei problemi solo quando lo riguardano, ma se non son cose personali è un homo homini lupus, l’uomo è lupo per l’altro uomo. 

E allora dove sta la soluzione? 

Sta nel fare come fa Don Gennaro: alzarsi e andarsene, nell’indifferenza totale degli animali. Sì, animali. Perché se fossero uomini fino al senso più intimo della parola non si sarebbero mossi così.

La parte conclusiva dell’opera è degna degli altari della lode

La piccola figlia si è ammalata e così tutti, ricordando di avere un ruolo umano nella loro vita, si mobilitano per aiutare dimenticando tutto il resto.

Spettacolare, stupendo il momento del contrasto tra religione e scienza: il dottore e le pettegole retrograde.

Nonostante il medico parli e spieghi le sue motivazioni cercando una soluzione scientifica, studiata, le pettegole attorno son sì tanto avvolte nel vortice della sciatta litania che non solo non ascoltano ma pregano aumentando il tono della voce a voler sottolineare che le sue elucubrazioni erano di intralcio per i loro più validi tentativi di guarigione della piccola.

Il momento catartico è l’arrivo della pastiglia proprio per mano di una persona improbabile: il ragionare, cioè colui al quale un tempo la moglie di Gennaro, da strozzina, strappò via anche i vestiti! Nel cuore della notte più buia, quando tutto sembrava ormai spento, arriva il rimedio proprio per mano di chi non si poteva neanche immaginare. 

Il ragioniere è l’esempio dell’unica ancora di salvezza, cioè di quelle poche persone che non sapendo cosa sia l’ego danno, a prescindere!

A questo punto Gennaro vomita addosso alla moglie tutti i motivi del suo volto incupito e dei suoi lunghi silenzi, facendole capire che avrebbe forse preferito lo stato di miseria in cui si trovavano prima a questa mendace e fallace situazione tragica in cui si trovano ora, fatta di falsità e di cedimento ai vizi per ottenere cosa? Un pugno di mosche.

La celebre scena in cui Eduardo recita la frase: “Adda passa’ ‘a nuttata”  non è altro che la definitiva condanna verso l’uomo; vi è una speranza in questa attesa, ma è comunque quasi spenta, triste e scialba, influenzata e delusa. Ormai è andata così, è inutile disperarsi o cercare rimedi, bisogna attendere, e basta.

Nonostante tutto, nonostante gli ormai vani pentimenti dei membri della famiglia e Don Gennaro che cerca di rimettere a posto ogni cosa, da uomo non vinto, da diverso, sopportando i mali con fare eroico, la situazione sembra acquietarsi. Sarà solo una pace apparente.

Quando tutto sembra trovare un senso lineare, l’epilogo scelto dal Maestro torna a stravolgere e a ridestare le incertezze: il finale dell’opera non è lieto, non ha un riscontro, ma termine nella più assoluta balìa delle onde con un triste e malinconico velo di speranza di Don Gennaro che ripete di nuovo, e sconsolato: “Adda passa’ ‘a nuttata”.

Un paragone perfetto con l’impossibilità di comprendere la vita: non è data sapere la fine, non c’è un epilogo, tutto resta appeso, in lacerante attesa, ed anche con un macigno addosso quando si è sommersi sviscerati e lesi dal marasma dei malaffari umani.

L’unico lume è quello di una lucciola che rischia di essere però solo un abbaglio!

Lorenzo Romano

Nato a Galatina in provincia di Lecce nell'Agosto del 1993, è un docente di scuola primaria. Da sempre amante della letteratura in ogni sua forma, pubblica articoli di stampo culturale con diverse riviste online. Il suo campo di interesse spazia tra la letteratura e la musica d'autore passando per il teatro ed il cinema.

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