Miseria e Nobiltà, il capolavoro di Eduardo Scarpetta, ha debuttato in anteprima al Teatro Traiano nell’adattamento di Lello Arena e di Luciano Melchionna. Una rivisitazione, che è soprattutto grandiosa opera scenografica e di costume, che mantiene inalterato il sapore squisitamente napoletano.
Miseria e Nobiltà di Eduardo Scarpetta non ha certo bisogno di presentazioni: è il teatro napoletano per eccellenza, una commedia degli equivoci senza tempo, un pantheon di personaggi che, complice anche il cinema (galeotto fu Totò e lo spaghetto), fa ormai parte dell’immaginario collettivo italiano.
È Lello Arena a riproporre questo interessante adattamento, con la regia di Luciano Melchionna.
Siamo nella Napoli di fine ottocento. Due famiglie sono costrette a condividere fame e povertà: quella di Felice Sciosciammocca, di professione scrivano, con il figlio Peppiniello e la compagna Luisella, e quella di Pasquale, un altro spiantato, con la moglie Concetta e la figlia Luisella. Felice e Pasquale (e rispettivi seguiti) saranno ingaggiati dal marchesino Eugenio per spacciarsi come la di lui famiglia e ottenere così il permesso di sposare Gemma, figlia di Don Gaetano Semmolone, un cuoco arricchito e malvisto, dai veri parenti del Marchesino.
Fin dall’inizio è la scenografia ad attirare l’attenzione. I personaggi si muovono infatti in una sorta di scantinato, delle fondamenta, che li costringe letteralmente a strisciare, quasi come topi. E come topi, in effetti, rosicchiano, squittiscono, tremano. Come ombre, come fantasmi, si muovono tra scheletri di ferro e di muffa. Pallidi e affamati. Si ride (poco, in verità) ma ci si impressiona anche. Perché se non fosse per il napoletano stretto parlato (anzi, strillato) da una bocca all’altra, sembrerebbe quasi di essere nella Londra fatiscente di Oliver Twist.
Agli attori è affidato il compito di riportarci sulla giusta strada: Lello Arena irrompe nella scena, atteso come non mai. Si fa desiderare. Nel sentire la sua voce, parte l’applauso del pubblico. Emoziona e fa emozionare. Soprattutto, la sua verve comica, la sua bravura e la sua presenza rimportano sui giusti binari un inizio un po’ fiacco.
Onestamente non saprei nemmeno dire perché: gli attori sono bravi, la recitazione non è affettata. Pupella, in particolare, ci delizia con una voce struggente, appena vediamo aprirsi il sipario (del resto, ad interpretarla è la bravissima Serena Pisa). Pure, sembra mancare qualcosa. Un inizio, dicevamo, fiacco, che stenta a decollare, quasi che la fame – vera, cruda – dei personaggi abbia tolto vigore agli attori stessi.
Nel secondo atto si assiste ad un decisivo (e necessario) cambio di scena, perché si passa ai pianti alti (letteralmente) della nobiltà (ostentata, ergo pacchiana) di Don Semmolone. E con l’opulenza delle sue stanze, esplode anche la commedia in un trionfo di battute ed espedienti scenici da lacrime agli occhi. Insomma, ci si diverte, e molto.
Se nel primo atto era la scenografia (de)cadente a dare quel pizzico di interesse in più, nel secondo, come un estremo contraltare, sono i vestiti, eccessivamente pomposi, quasi barocchi (quando non futuristici) che i Nostri indossano per la loro trasfigurazione a nobili (commedianti). Un eccesso, in questo caso doverosamente caricaturale, ma con effetti esilaranti.
Per il resto, Miseria e Nobiltà, così come è stata portata in scena, non delude. Bravi, è bene ripeterlo gli attori. Bravissimo, è bene ripeterlo, Lello Arena. Un allestimento coraggioso e una scenografia interessante contribuiscono a rendere questo classico del teatro italiano un appuntamento a mio avviso imperdibile.
Chiara Amati