Lo facciamo tutt*, inutile negarlo. Ogni stagione, volenti o nolenti, stiamo lì a chiederci: e ora cosa va di moda? Mi starà bene? Oh Signore ti prego, i pantaloni a vita bassa no. E niente viola porpora, ho già dato.
Siamo tutti schiavi della moda, radical chic, alternativi, intellettuali, punk, menefreghisti, impegnati, contadini o cittadini. Pensiamo tutti che il nostro outfit debba rappresentarci, ma non ci domandiamo più perché. Ha davvero ancora senso scegliere un certo stile invece di un altro?
Una cosa è certa. Tutto quello che sta nei nostri armadi, brand o no-brand, trae ispirazione dal mondo delle sub-culture del Novecento, dagli anni in cui la moda era tutta da inventare e poteva contribuire a esprimere un messaggio, una scossa al conformismo borghese. Basti pensare alle minigonne di Mary Quant, al chiodo pieno di borchie dei Sex Pistols che con Never Mind the Bollocks arrivano ad attaccare persino Her Majesty, Dio salvi la Regina!
Per le generazioni che ci hanno preceduto l’abbigliamento aveva un significato preciso. Noi possiamo dire lo stesso?
Oggi ci vantiamo di essere liberi. Liberi di scegliere cosa indossare, cosa mangiare, cosa pensare, cosa vedere. Ci lamentiamo ma non protestiamo, siamo dei pensatori da tastiera. E come esprimiamo in termini di moda questa filosofia? Entrando in un qualsiasi negozio virtuale o fisico di una qualsiasi catena e comprando tutto quello che ci va o ci piace nei limiti imposti dal nostro portafoglio? Scegliendo outfit e trend di stagione in base alle immagini patinate delle riviste e a quelle filtrate dei social?
Questa non è moda. Non è libertà. E’ un semplice, velato e inconsapevole ritorno al conformismo contro cui tante generazioni illuminate si sono battute.
Oggi esiste un messaggio importante, un tema che scuote le coscienze e si fa strada anche nel Fashion System, ed è la sostenibilità.
La moda oggi è una delle industrie più inquinanti del pianeta. La produzione di emissioni di Co2, l’utilizzo di materiali sintetici che a ogni lavaggio liberano negli scarichi enormi quantità di microplastiche che inquinano i mari, l’enorme spreco di materie prime che sta dietro alla produzione di un capo che spesso non è destinato a durare, sono solo alcuni dei temi di cui per tanto, troppo tempo non si è parlato. Sapete che si consumano oltre 2.500 litri d’acqua per fare una semplice t-shirt?
Per non parlare delle collezioni invendute e del loro smaltimento. Questo è un problema che non riguarda solo il fast fashion, anche le grandi firme negli ultimi anni hanno adottato ritmi di produzione che non sono più sostenibili. Ne è manifesto la lettera del King Giorgio Armani che definisce la crisi portata dal coronavirus come una grande opportunità per rallentare e definire un orizzonte più autentico.
E allora vestiamo ecosostenibile. Come? Prima di tutto il vintage!
Non solo i capi di un tempo sono fatti con materiali più pregiati e durevoli rispetto a quelli che si trovano in commercio oggi, ma sono pezzi unici, che raccontano una storia, tagliati e cuciti come nonna vorrebbe. Le nostre città sono piene di negozi che vendono usato. A Milano c’è Bivio, che nelle sue tre sedi compra da privati e rivende abbigliamento e accessori, e ce ne sono molti altri. Cosi come a Roma, con Mademoiselle Vintage, i negozi Humana vintage e Flamingo, oppure Pop21 a Napoli, Epoca e la selezione di Boutique Nadine a Firenze, per non parlare dei mercati!
Vero è che di questi tempi i negozi fisici non sono sempre accessibili ma la voglia di comprare resta. Internet oramai offre di tutto, anche ottime piattaforme di abbigliamento vintage. Da Vestiaire Collective a Marketplace passando per Depop, i cui profili spesso non sono solo vetrine di ottimi negozi vintage, ma piccoli scorci su personaggi che con la loro passione ed esperienza hanno tanto da insegnare, non solo in fatto di moda. Se non ci credete date uno sguardo al profilo di Livia e al suo e-shop W Doubleyou, un giusto mix di cultura, ironia e abiti unici.
E non c’è solo l’usato, anzi. Dalle grandi firme alle piccole realtà, oggi molti brand producono in chiave sostenibile.
Basti pensare alla linea Conscious di H&M o agli iconici Levi’s, sempre più attenti ai consumi dell’acqua e alle sostanze utilizzate per il trattamento dei tessuti. Oppure i PAR.CO Denim, jeans ecosostenibili 100% italiani e REGENESI, che rigenera appunto materiali di scarto trasformandoli in oggetti di design e abbigliamento in collaborazione con artisti e artigiani internazionali.
Persino il figlio di Elizabeth, il principe Carlo, ha lanciato una linea di abbigliamento sostenibile, The Modern Artisan. Il reale inglese, che a detta sua indossa ancora scarpe comprate nel ’71 e crede fortemente nella necessità di un’economia circolare, ha collaborato con il gruppo Yoox Net-a-Porter per creare una linea disegnata da giovani di talento selezionati tra la Scozia e il Politecnico di Milano, che esce il 12 novembre. Meglio di così!
Insomma, anche se non sempre sappiamo perché indossare una maglietta a righe nasce come gesto di ribellione, possiamo comprarla ecologica oppure vintage e saremo comunque molto rock’n’roll. Stay tuned.
Maria Gabriele