Occhio alla grammatica inglese. La lingua internazionale potrebbe diventare protagonista assoluta di alcuni atenei italiani.
Pietra dello scandalo il Politecnico di Milano, che dal 2012 tenta di proporre un modello accademico monolingue con l’inglese protagonista. Docenti e Tar avevano subito messo le cose in chiaro illo tempore, ma alla fine dei giochi nel prestigioso ateneo restano solo 8 corsi in italiano. Il Consiglio di Stato chiede equilibrio, il Ministero dell’Istruzione vacilla, chiedendo una revisione per il programma 2019/20. L’Accademia della Crusca, noto baluardo della lingua italiana, si schiera invece contro il sacrificio del nostro idioma. Il linguista Claudio Marazzini ritiene che un provvedimento di questo tipo possa avere senso solo per facoltà come ingegneria e design. La questione, quindi, è davvero rinunciare all’italiano?
Già adesso le facoltà scientifiche, come ad esempio quelle di matematica e ingegneria, propongono manuali principalmente in inglese. Alcuni tecnicismi sono praticamente intraducibili in italiano. Non è possibile applicare lo stesso ragionamento alle facoltà umanistiche, dove a malapena si sostiene un esame di lingua inglese e se capita anche di letteratura. Ma rabbrividisco all’idea di sentire nominare un “Denti Alighieri” all’esame sulla Divina Commedia e capisco perfettamente Marazzini quando afferma che gli architetti debbano leggere il Vasari in italiano.
L’errore, come sempre, sta nell’estremizzazione. Non possiamo pensare di proporre corsi di laurea solo in inglese, ma che male ci sarebbe ad avere un’università davvero bilingue, che consentisse a tutti i neolaureati di destreggiarsi facilmente anche all’estero? Lo studio della grammatica inglese in Italia, se ne parla ormai da decenni, dovrebbe essere seriamente potenziato sin dalle elementari. Quanti studenti italiani attualmente si sentirebbero davvero in grado di seguire un corso di laurea esclusivamente in inglese? E cosa dire, invece, di chi non vuole fare l’università? C’è anche chi sceglie di lavorare dopo le superiori. La conoscenza dell’inglese, in questo caso, non è comunque fondamentale per l’inserimento nel mondo del lavoro? Anche per fare il commesso al centro di Roma richiedono un inglese fluente.
Il presente è già globalizzato e il nostro Paese per certi versi è rimasto indietro. Basta ascoltare un olandese o un danese parlare in inglese per capire quanto è rimasto indietro.
Tuttavia non so se il vero salto di qualità sia rinunciare all’italiano. Anzi, studiare in due lingue o più lingue consente lo sviluppo di una padronanza maggiore di tutto ciò che si acquisisce perché arricchisce il ragionamento. Penso che saranno d’accordo tutti quelli che hanno studiato lingue o lettere classiche: quanto cambia il modo di pensare tradurre dal greco all’italiano? E forse saranno d’accordo anche tutti gli insegnanti che almeno una volta nella vita si sono trovati a insegnare la lingua italiana a uno straniero utilizzando l’inglese come termine di paragone, perché era l’unica lingua conosciuta da entrambi i parlanti.
Se la scuola non corre in aiuto degli studenti dal principio, ai ragazzi non resta che farsi le ossa da soli. Vedendo film in lingua originale, traducendo canzoni o munendosi, come tanto piace ai Millennials, di qualche app che supporti lo studio della lingua!
Alessia Pizzi
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