Di recente apparso a Unomattina e MorningNews, Stefano Ferri è un PR di successo, giornalista consulente in comunicazione marketing, uomo bianco, cis, eterosessuale, sposato con una figlia adolescente. Tutte le caratteristiche per definirsi una persona privilegiata. Invece no. No, perché si veste con abiti da donna. Fa la spesa sui tacchi, si reca in ufficio in tubino, passeggia in minigonna e ama il calcio e le macchine d’epoca. Ho avuto il piacere di intervistarlo in un pomeriggio di luglio, io soffrivo l’umidità della Puglia e lui soffriva il caldo Milanese. Ne è venuta fuori una piacevolissima chiacchierata, a tratti anche illuminante.
Nella sua storia e nelle sua ricerca di consapevolezze e accettazione di sé, ho visto un pò di me e mi sono lasciata trasportare dalla sua testimonianza.
1Stefano raccontami di te:
Sono Stefano Ferri, giornalista consulente in comunicazione e marketing, scrittore con quattro romanzi all’attivo di cui un ultimo autobiografico. Devo ammetterlo, sono più noto per come mi vesto. Prendo il prestito il titolo che ho dato al romanzo per dire che sono un crossdresser. Sono un uomo che indossa abiti che vengono convenzionalmente riservati alle donne. Dovessi essere più schietto, ti direi che sono l’esatto contraltare di tutte le donne di oggi che si vestono da uomo: quale donna occidentale non ha nel suo guardaroba un tailleur pantalone? O non ha jeans o t-shirt o sneakers?
Eppure non si ammette che un uomo indossi una gonna o un abito al ginocchio perché, per uno stolto pregiudizio culturale, si considera che questi abiti siano ancorati al sesso femminile dimenticandosi che gli uomini li hanno indossati per oltre quattromila anni di storia documentata.
Per tutto l’antico Egitto gli uomini si vestivano soltanto con il pareo, nell’antica Roma e nell’antica Grecia l’uomo indossava tuniche al ginocchio, nel Medioevo contadino anche.
Nel Rinascimento l’uomo usava la minigonna e la calzamaglia. Questo per dire che c’è molto pregiudizio e ignoranza dietro al divieto e allo stigma che la società ha verso di me.
Basti pensare che la prima donna che nel 1896 indossò un paio di pantaloni fu arrestata, incarcerata, processata e detenuta per indecenza e oltraggio alla morale. E come lei tutte le altre donne fino allo scoppio della prima guerra mondiale, occasione in cui le città si svuotarono di uomini partiti per il fronte e le donne si ritrovarono a svolgere ruoli prettamente maschili che non avrebbero potuto svolgere con abiti pre Coco Chanel.
Questa drammaticità ha fatto cadere 20 anni di stigma addirittura superiore a quello che è toccato a me visto che finora in galera non mi ha mandato nessuno.
Per quanto mi riguarda, ritengo che sia solo questione di quante persone indossano un capo e per quanto tempo. L’inventore del Marketing, Kotler, disse che “Qualcosa diventa sufficientemente interessante quando la si vede a lungo”.
Sono diversi secoli che non si vedono più uomini con la gonna, per questo mi affanno tanto. Più mi si vede, più vengo percepito come normale.
L’uomo con la gonna è l’uomo che va in ufficio tutte le mattine, che si reca a fare la spesa, che fa le cose di ogni giorno. L’uomo con la gonna è da equiparare alla donna con il pantalone. Per questo mi definisco il contraltare.
2Una delle citazioni che preferisci è “La cultura è quello che ti rimane quando hai dimenticato tutto”. È come se a un certo punto della storia ci fossimo autocensurati rientrando in convenzioni dalle quali stiamo faticando a ri-uscire. Se la cultura è quello che ci rimane, di questo secolo cosa ci è rimasto?
Intanto i paletti sono enormi perché enorme è la radice di questo paletto in particolare. Ci fu un momento dopo la rivoluzione industriale in cui l’uomo fece quello che i politologi chiamano la grande rinuncia maschile: rinunciò a tutte le parrucche, le ciprie, i tacchi e i colori purché gli restasse l’esclusiva del potere.
Che stereotipo più grande c’è dell’uomo dell’Ottocento vestito in smoking e di nero? La classica rappresentazione di un potere patriarcale che portò le donne a trascorrere il loro tempo in casa o al limite in conceria.
Ricordo un video che ho visto di un comizio di Mussolini in Piazza del Plebiscito a Napoli: non era presente neanche una donna, proprio in virtù di questo “scambio” che durò fino alle contestazioni del ’68.
Oggi la donna si sta riprendendo il potere. Abbiamo donne che sono presidenti, ministre, senatrici, deputate dirigenti… Le statistiche dicono che nel 2008 solo il 5% delle società quotate in borsa era presieduto da una donna, oggi siamo saliti al 37%. La donna sta dunque recuperando il tempo perso. Come si può pensare che non nascano uomini come me?
Stiamo correndo verso la parità e sono curioso di vedere come l’uomo sopporta il fatto di non potersi vestire come vuole.
Rispondendo alla tua domanda, del secolo scorso rimane Internet. I social media hanno sovvertito modalità di contatto personale annullando i famosi sei gradi di separazione.
Di tutti gli altri valori che si sono persi, dobbiamo riconquistare la voglia di guardare al futuro, progettarlo e costruirlo.
La tensione progettuale verso il “voglio fare soldi”, l’eccesso di benessere ha dato alla testa. Dagli anni 90 del XX secolo non guardiamo più al futuro, e neanche al passato. Non guardiamo più a nulla. Esistenzialmente parlando, come società, siamo delle amebe. Pare davvero che l’unico obiettivo di una giornata di lavoro sia l’aperitivo serale.
Le tragedie di oggi sono figlie di questa mancata proiezione. Dobbiamo riconquistarla.
3Tu affermi di avere due parti dentro di te, Stefano e Stefania, come convivono? Ti andrebbe di descriverle?
Va detto che tutti hanno due parti dentro se stessi, chiunque ne ha una maschile e una femminile, a me semplicemente si vede di più. Stefano è l’uomo che ti sta parlando ed è forse l’uomo più maschile che ti possa capitare di incontrare.
Al mio interno di femminile non ho nulla perché lo riverso negli abiti. Sono un uomo che pensa in modo maschile e ha gusti maschili persino banali: macchine di grossa cilindrata, il calcio, i romanzi e i film d’azione, le donne. Questo sono io. Di Stefania ho solo gli abiti.
Questo è un modo metaforico per descrivere la cosa ma in realtà le cause di questa scissione sono profonde e descritte accuratamente nel mio romanzo.
Vien facile chiedersi come mai non riesca a vestirmi da uomo. Le cose più profonde sono anche le più difficili da dire perché le parole le sminuiscono, per questo ho dovuto scrivere un romanzo di trecento pagine per spiegarlo.
4Com’è il tuo rapporto con la famiglia e con gli altri?
Ho 56 anni e di tutti gli amici che avevo me ne sono rimasti due. Questo è quasi normale, sfido qualsiasi mio coetaneo a dire che frequenta le stesse persone di quando aveva vent’anni. La differenza è che le mie amicizie sono cambiate in modo un po’ brusco quando ho iniziato a vestirmi da donna. I miei amici non mi hanno più accettato o non sono stato in grado io di farmi accettare.
Fu spaventoso anche per me perché all’epoca ignoravo le cause del voler indossare abiti femminili, mentre adesso, dopo quindici anni di analisi, sono consapevole.
La stessa dicotomia Stefano-Stefania era un mistero per me e l’ignoto ti fa paura e ti rende aggressivo.
Io, fra virgolette, mordevo gli altri.
Per quanto riguarda la famiglia, mia moglie ha dovuto fare quello che ho dovuto fare io: scalare la montagna dei propri pregiudizi.
Io per primo ho dovuto farlo, ho avvertito la pulsione verso gli abiti femminili a 9 anni e li ho indossati soltanto a 36.
Ci ho messo 27 anni a scalarla.
Mia moglie, che mi ha sposato in giacca e cravatta, ce ne ha messi soltanto dieci.
Anni infiniti. Ha fatto quella montagna di corsa, pur di non perdermi. Se ci pensi, è stata una bellissima dichiarazione d’amore. Mia figlia invece fa parte della generazione fluida, oltre al fatto che mi ha visto sempre così. Per lei è stato più semplice.
Della mia famiglia d’origine, mia sorella fu la prima a saperlo. Era molto preoccupata perché ero sposato da sette anni e non arrivavano figli. Un giorno mi chiese se ci fossero dei problemi tra me e mia moglie.
Allora, facendomi giurare di non dire nulla a nessuno, soprattutto a mio padre, la feci venire a casa mia e le mostrai il mio armadio. Le cascò la mascella.
Io, in società, vestivo ancora in abiti da uomo. Lei guardò i miei vestiti e dopo essersi ripresa dallo choc mi disse “beh, non fai nulla di male”. Ma anche lei impiegò del tempo per capire che la mia non era una scelta.
Chiedere a me di vestirmi da uomo è come chiedere ad un gay di andare con una donna.
Mia madre è morta senza conoscere questo lato della mia personalità, mio padre invece, come ho raccontato nel libro, è morto da poco e ha fatto in tempo a conoscermi per quello che sono.
Io per tanti anni mi sono censurato quando andavo a trovare i miei genitori. Indossavo indumenti unisex.
Un giorno, i casi della vita mi fecero dimenticare di cambiarmi prima di andare da mio padre, e mi accorsi quando avevo già citofonato di come ero vestito.
Mi accolse in casa e mi parlò tranquillamente, come se fosse assolutamente normale che il uso unico figlio maschio fosse vestito in minigonna e tacchi.
La cosa mi sconvolse e mi ripromisi di chiedere perché non ebbe reazioni. Un giorno capitò l’occasione e mi disse: “ Stefano, tu hai una figlia che adesso è bambina e un giorno crescerà. Da quel momento comincerai a vederla con il contagocce, cosi come a me è successo con te. Però se anche a te dovesse capitare di vederla con un unico paio di jeans addosso per dieci anni, due domande te le porresti anche tu.”
5Cosa ti senti di consigliare alle nuove generazioni?
Che si sentano libere di costruire la società come la vogliono e la sentano loro senza lasciarsi imporre niente. Tanto, come diceva Steve Jobs: “La morte è l’unica cosa democratica ed è pure utile perché consente il ricambio totale delle idee” .
6Sei mai stato vittima di atti omofobi?
Posso raccontarti un unico episodio. Ho avuto solo un’intimidazione in spiaggia di un gruppo di maschi etero senza donne. A parer mio non c’è cosa più potenzialmente pericolosa di un gruppo di uomini etero senza donne.
Fondamentalmente l’omofobia che ho subito e che subisco ha preso la forma di attacchi professionali, così come oggi ricevo shitstorm sui social.
Ma dietro queste shitstorm c’è l’invidia nei confronti di un uomo risolto, e tanta gente purtroppo non lo è.
Sul lavoro ho sofferto molto ma anche lì la radice è la stessa.
7Suppongo tu abbia girato il mondo, come ha reagito l’estero rispetto al tuo abbigliamento?
Paese che vai, usanza che trovi. Ci sono Paesi in cui mi sono sentito completamente accettato: Londra, i paesi nordici, New York (che è il posto migliore per me perché, pur con le sue contraddizioni, socialmente parlando è il più maturo che io conosca).
Poter andare in giro confondendomi alla massa sarebbe ideale ma non succede sempre e ovunque.
In alcuni casi verrei arrestato, come ad esempio nei Paesi musulmani.
Ho rischiato tanto in Malesia quando il crosdressing era vietato. Era il 2005 ed ero ospite del governo per una fiera turistica, il vice ministro del turismo si era fatto una foto con me, difficile arrestarmi in quelle condizioni ma una volta arrivato all’aeroporto per il viaggio di ritorno, mentre aspettavo il volo per Roma da solo, all’ultimo controllo davanti al gate, un poliziotto in borghese mi vide vestito da donna, mi guardò e mi disse:
“Sei vestito da uomo o da donna?” E io ebbi il guizzo della disperazione dicendo “È una gonna da uomo, signore”.
Sorrise, mi ridiede il passaporto e mi disse “Vattene”. E corsi.
Francesca Sorge
8“La Dipendenza” di Stefano Ferri
Stefano Ferri è stato ospite della nostra newsletter La Dipendenza: ascolta il suo trip culturale per scoprire i suoi suggerimenti!