L’immaginario comune è ricco di figure mitiche e spesso magiche che portano la fantasia al galoppo e richiamano temi ed emozioni. Esse, non poche volte, spingono anche a riflettere sulla metafora che rappresentano, come la capacità di superare i limiti o la possibilità di trovare soluzioni anche quando queste sembrano assenti. Si pensi ai grandi riferimenti mitologici della cultura greca o ai fantastici dèi nordici o alle divinità della cultura orientale.
Spiccano, tuttavia, in questo panorama eterogeneo, figure possenti di origine africana le quali mixano la bellezza dell’ignoto con le ancestrali pulsioni umane. È il caso delle divinità tribali e di tutta la schiera di stregoni e maghi che si pongono quali medium tra l’aldilà e il mondo senziente. Esse sono personalità complesse e articolate, in bilico tra la corporeità e l’ascesi, mistici antichi di una cultura tramandata fatta di ritualità, mistero ed ermetismo. Il bacino del Mediterraneo non è esente da questa tradizione, anzi, ne custodisce le radici e ne coltiva la memoria, finanche a supportare antiche pratiche e folkloriche usanze. Il Mare Nostrum, dunque, culla e urna di storia e antropologia, abbraccia le coste che lambisce e in esse riversa conoscenze e storie e da esse carpisce le memorie e i riti diffondendoli e contaminandoli.
L’Italia tutta, dalla Magna Grecia alle regioni etrusche pullula di etnoantropografia e di folklore senza esclusione di zone o regioni.
In ogni luogo italiano si può intercettare e approfondire qualcosa di relato al sostrato misterico e inspiegabile, spesso in linea esoterica come i percorsi nel quadrilatero torinese o le multiformi interpretazioni di siti come Castel del Monte in Puglia o le grandi necropoli etrusche.
C’è una regione, tuttavia, che spicca tra le altre italiane in quanto tabernacolo di ritualità, ancestrali misteri, ignoto magico e primordiale emotività. La terra dei quattro Mori, isola lambita dalle profonde acque sarde, unicum italico, è la dimora di figure torbide e ancora vivide nell’immaginario comune, presenze reali nella popolazione isolana che le teme e le venera come nottetempo fecero gli avi. Tra i nuraghi dei Mamuthones e le sterpaglie dei campi tra i muretti a secco, presenze antiche invadono la Sardegna camminando lungo i percorsi battuti dal tempo e dalla memoria.
Controversa figura centaurica, brillante e austera, temuta eppure ricercata, donna evanescente che non teme il buio denso della notte, dal nome impronunciabile e antico, quasi scaramantica paura del mistero e reverenziale timore, l’Accabadora è la donna che incarna il latino precetto di nomen omen e lo fa integralmente, con la sua stessa sembianza e con il suo stile di vita.
Tante le leggende che vedono protagonista questa inquietante e affascinante figura le cui origini si perdono nella notte dei tempi; molte le storie che si tramandano attorno alla vaghezza del suo agire. Tutti i riferimenti, ad ogni modo, convergono verso la funzione di Accabadora, insita nel suo stesso nome: finire, compiere, terminare così come traspare anche dalle pagine del né romanzo di M. Murgia, Accabadora, in un approccio ambientato e interiore a questa figura molto controversa.
Forse è proprio dall’incertezza etimologica che bisognerebbe partire per contestualizzare meglio S’Accabadora.
Che significa S’Abbaccadora?
Se il verbo terminare punta, infatti, maggiormente al campo semantico del finire, del concludere quasi stroncando, interrompendo bruscamente, la parola compiere, invece, allarga maggiormente l’orizzonte verso l’idea del ‘portare a conclusione’, cioè dare soluzione a qualcosa, ad un progetto o ad una storia, anche di vita umana.
Secondo questa interpretazione del verbo, molto probabilmente di derivazione spagnola o comunque iberica (acabar), S’Accabadora potrebbe configurarsi come figura intermedia tra l’imperscrutabile e l’aldiqua, tra le vicende umane e l’esito della storia del singolo, assumendo quasi la funzione di collaboratrice di un progetto ampio e prescritto. Accabadora come ausiliaria di uno scopo da compiere.
Tale linea, certamente da approfondire e che si offre qui come spunto per un’analisi più complessa, pone il punto su una nuova sfumatura di tale spesso inquietante donna, troppe volte vista come uno spietato mietitore ma forse soltanto perché guardata con gli occhi di un osservatore esterno.
Tentando un gioco della parti, accondiscendendo all’inglese if i was in your shoes, ci si dovrebbe immedesimare nell’animo degli agonizzanti ed empatizzare con essi, percepirne le emozioni e le attese, leggerne i pensieri, condividerne i respiri fino a interiorizzare il costante rantolo del dolore per una sofferenza che stenta a risolversi gettando il penitente in un lungo ed infinito limbo di dolore.
Chi è S’Abbaccadora?
E’ qui che l’intevento di S’Accabadora diventa parte del progetto di conclusione, di un circolo che tende a chiudere la circonferenza.
Armata di profonda determinazione e retta nella certezza di fare del bene lenendo le sofferenze altrui, la misteriosa figura della donna sarda, angelo della fine, irrompe silenziosa nella casa dell’agonizzante attraverso la porta lasciata socchiusa dai famigliari.
Reverente devota della fede, con passo morbido giunge nella stanza di dolore ripulita già dai quadri e dalle sacre suppellettili, per finalizzare il compimento della storia prescritta con un colpo del ligneo martello o con un cuscino a stroncare l’agonia od offrendo pace serrando tra le gambe il collo addolorato del dolente penitente.
Per tanti un omicidio, per altri un atto di pietoso ufficio per tutti un’azione contorversa e dibattuta, oggi ancora più alla luce della bioetica e dei precetti di moralità.
Non è facile, nè è lo scopo di tale intervento, definire se sia giusto o sbagliato l’operato di S’Accabadora ma, certamente, è un dato di fatto che, già da tempo immemore, in Sardegna così come in altre zone d’Italia (come il Salento) figure preposte si occupassero di acabar, portare a compimento, ciò che aveva avuto origine.
Resta alto il velo di mistero e tante volte di tetra paura che circonda queste rituali azioni, accompagnate dal canto delle prefiche e dal lamento puntuale dei congiunti raccolti in dolorosa memoria, ma, nonostante il giudizio di moralità o immoralità, di cui non si discerne in questa sede, resta alta la valenza antropologica che si accompagna all’interrogativo etico che, seppur suscitato da una mitica figura legata ad un primordiale passato, pulsa oggi con fragore soprattutto correlato ai non più esigui episodi di cronaca che interrogano l’uomo contemporaneo circa l’annosa quaestio del fine vita.
Episodi eclatanti di sportivi e uomini noti alla ribalta della cronaca pungolano il pensiero critico di ciascuno andando a porre l’accento su ciò che può essere giusto o sbagliato, troppe volte innestando il dibattito su ciò che è bene e ciò che male alla luce di dottrine e filosofie.
In queto ambito, dunque, facilmente si sfocia nella contrapposizione solita del luogo comune che vede opporre l’angelo della morte contro l’antico sterminatore armato di falce, il compimento di una storia e l’interruzione brusca di un destino stroncato.
Probabilmente, ancora una volta, sarebbe utile porre l’attenzione sull’empatia, sulla capacità di scostarsi da sè per accedere al punto di vista dell’altro, forse anche forzando le remore delle sovrastrutture personali, per assumere una visione maggiormente orientata ma non per questa relativista, un’ottica scevra di giudizio e maggiormente incline alla comprensione altrui.
Forse l’acestrale e mitologica figura di questa donne esile ma determinata induce proprio alla riflessione su tale nevralgico punto, ossia la possibilità di discernere e scegliere.
S’Accabadora, dunque, oltre a caricarsi di valenza simbolica, assume oggi più che mai il valore di interrogativo di specie circa la possibilità di scelta personale e di responsabilità etica in un contesto che, sempre con più forza, punta i riflettori su domande profonde e che necessitano di risposte non solo di massa o di diplomazia ma di vera e propria responsabilità personale.
Forse è proprio questo che inquieta di tale controversa donna, cioè la capacità di mettere ancora oggi, più che mai, in discussione le certezza di un sostrato contemporaneo che, nonostante sia forte delle scoperte e del superamento dei limiti, trema ancora indubbiamento davanti alla lezione della storia, semplice e scontata da far paura, da essere al contempo angelo di morte o steminatore, in questo caso sotto gli abiti austeri di una donna determinata che calca le strade sterrate della Sardegna antica e quanto mai attuale.
Amedeo Di Tella