Ma noi, chi siamo veramente?
Attenzione, non voglio provare ora a rispondere al quesito fondamentale, la domanda che in tanti da tantissimo tempo si pongono e cui naturalmente non c’è risposta. E sia chiaro, nemmeno Westworld, che in fondo rimane soltanto una serie tv, vuole provare a rispondere. Semplicemente tale domanda primaria, proprio perché una risposta forse non l’avremo mai, diventa molto più interessante e se possibile ancora più complessa spostandola dal punto di vista esistenziale a quello strettamente sociale.
Chi è l’uomo in mezzo ad altri uomini, quando ha la possibilità di liberarsi delle proprie convezioni sociali? Il secondo episodio di Westworld ci mette indubbiamente di fronte a questo dilemma: siamo il ragazzo buono che, pur sapendo di poterlo evitare di fronte a robot lì apposta per servirlo, si butta nel fango per aiutare un anziano (finto) e raccoglie un barattolo ad una donna (finta), oppure siamo l’uomo selvaggio che sfoga le proprie pulsioni sparando all’impazzata contro un robot solo per scoprire che effetto fa uccidere?
I migliori show sono sicuramente quelli che ci fanno riflettere, quelli che una volta terminati ci lasciano ancora la voglia di pensarci e venire la frenesia verso il prossimo episodio. Westworld ha già raggiunto questo livello alla seconda puntata, un episodio che rimane ancora molto introduttivo – ma ci mancherebbe con tutta la mole di materia bizzarra che affronta – ma finalmente ci mostra il punto di vista degli umani, dei visitatori del parco che affrontano un viaggio non solo di divertimento virtuale, ma di pura riscoperta morale. Ovviamente sappiamo ancora molto poco del parco in sé e della storia in generale, ma tra il viaggio dell’uomo in nero, le intenzioni di Ford e soprattutto le scoperte del robot Maeve, siamo andati improvvisamente molto avanti.
Questo secondo episodio infatti, ricorrendo alla domanda essenziale dell’inizio, ci ricorda quanto le esperienze ed i traumi contino nella formazione di ognuno di noi. Figuriamoci nel caso di un robot, che pur potendo avere varie memorie dovute alle varie riprogrammazioni, di vero e reale praticamente e paradossalmente ha solo il bagaglio artificioso di ricordi impianto nelle proprie schede: è chiaro che per una serie il cui fulcro è il rapporto uomo-macchina vedere l’umanizzazione dei robot, e soprattutto la loro presa di consapevolezza del proprio essere, è a dir poco fondamentale nello sviluppo della vicenda, e questa 2° puntata è già una tappa fondamentale.
“Chestnut” per la verità soffre di uno dei classici difetti delle prime stagioni delle serie HBO, ovvero una mancanza di ritmo dovuta alla necessità di spiegare molto cose pur rimanendo il più misteriosi possibili. Evita di diventare noiosa grazie al fascino della vicenda e un livello di inquietudine che monta sempre più col passare dei minuti, e sta avviando molto bene la storia, ma deve ancora lavorare un po’ sulla costruzione dell’empatia verso i protagonisti. Inutile dire che il tempo a disposizione per riuscirci c’è eccome.
Emanuele D’Aniello