Siamo soliti definire qualcosa bella o brutta, spesso senza mezze misure. Queste due però non sono definizioni che si sposano con l’arte, affatto. E non c’è dubbio, ricordiamolo, che Twin Peaks sia arte, non una serie tv come le altre.
Nei suoi pregi e nei difetti, nei momenti più alti e in quelli più frustranti, Twin Peaks ha sempre superato la normalità. Arte, appunto, che noi per pochezza di mezzi espressivi abbiamo inquadrato col genere sperimentale. Scelta facile, innegabilmente. Ma l’arte, ancora una volta, esula da definizioni e gabbie di classificazione.
Twin Peaks non è tornato dopo 25 anni per essere definito bello o brutto, ovviamente. Il fine dell’arte è quello di scatenare una sensazione, una reazione emotiva, qualunque essa sia. Voler comunicare qualcosa, prima di tutto, spesso e volentieri lasciando ad altri l’interpretazione.
Ho atteso tanto per recensire queste due puntate finali di Twin Peaks, due settimane dalla messa in onda, perché David Lynch ci ha messo davanti un qualcosa per cui non è semplice trovare le parole. Un’opera che, esattamente come doveva fare, ha scatenato reazioni e sensazioni, non lapidari giudizi. Ha comunicato, e io ho reagito sia con la testa sia col cuore sia con la pancia.
E allora questa non è una vera e propria recensione. In giro su internet ne trovate decine e decine. Navigate e troverete con estrema facilità analisi, interpretazioni, significati e riassunti. Ma Twin Peaks merita, per quello che ci ha regalato nel corso degli anni, una risposta vera, onesta, sentita, non solo una recensione.
Twin Peaks merita di sapere, allora, che il suo finale (?) è stato sbagliato.
I problemi, così evidenti da scatenarne retroattivamente altri, sono essenzialmente due: l’ennesima non finalità e la ripetitività dei temi.
Ora, io non so ovviamente il vero motivo per cui David Lynch e Mark Frost (lo cito solo ora, dopo ben 18 puntate, ma il suo apporto non va dimenticato) abbiano accettato e voluto rifare Twin Peaks dopo così tanti anni. Una delle ragioni però, tra le tante, è stata quella di aver la possibilità inattesa e irrifiutabile di tornare ad esplorare quel mondo, quei personaggi, potendo proseguire l’operazione che era stata interrotta con la brutale cancellazione della serie nel 1991. Cancellazione che aveva lasciato un finale aperto in cui Dale Cooper, nonostante i suoi sforzi, non riusciva a sistemare le cose, lui rimaneva prigioniero, il male vinceva e il ciclo si ripeteva daccapo.
Come finisce il ritorno di Twin Peaks, 25 anni dopo?
Con un finale aperto in cui Dale Cooper, nonostante i suoi sforzi, non riusce a sistemare le cose, lui rimane prigioniero, il male vince e il ciclo si ripete daccapo.
Davvero? Non mi aspettavo e probabilmente inconsciamente nemmeno volevo una conclusione netta in cui Lynch desse risposta a tutto. Non era il caso, non sarebbe stato nemmeno giusto, oltre che molto poco affascinante. Ma un conto è realizzare un finale ambiguo, altro conto realizzare l’ennesimo finale aperto uguale a quello che questa serie, idealmente, doveva e poteva correggere.
Quale è allora il senso di questo finale e, di conseguenza, dell’intera serie, di tutte le 18 puntate? Quale è il senso di riproporre i medesimi temi? Avevamo già capito tutto ciò 25 anni, senza dubbi alcuni purtroppo. Quale è il senso di tornare su un qualcosa se non si aggiunge alcunché? Alla luce del finale, a parte qualche risposta alla mitologia della serie qua e là, cosa ha cambiato questa serie rispetto alla storia raccontata 25 anni?
E poi, onestamente, a questo finale posso dedicare la critica/insulto più terribile per Twin Peaks e l’arte in generale. Questo finale è stato……
banale.
L’onnipresenza del male, e la sua costante ciclica ripetitività, è uno dei temi cardini di Twin Peaks, da sempre. Vedere come questo tema, già affrontato svariate volte, già riproposto, sia la chiave di volta del finale è probabilmente la cosa meno sorprendente a cui Lynch potesse pensare. Così ovvio, e noto ad ogni fans, da rimanere incapace di aggiungere qualcosa o cambiare lo status quo tematico della serie.
Banale e inutile, e in un certo senso pure dannoso. Perché, lasciando ancora una volta tutto in sospeso, fa guardare indietro alle cose che non vanno. E allora: p erché BOB, uno dei più grandi villain di sempre, tra tv e cinema, è stato distrutto così facilmente, e anche in modo così ridicolo, da un personaggio introdotto appena due episodi prima? Che senso ha avuto proporre le scene di Audrey? Che senso ha avuto inserire le inutili peripezie dei fratelli Horne? Perché abbiamo perso tempo con Richard, Becky e il suo fidanzato? Col senno di poi, dalla serie non si potevano tagliare minuti, ma ORE. Ma tutto è rimasto perché l’arte, dopotutto, è espressione del suo artista nel migliore dei casi, e nel peggiore ne diventa autentica masturbazione.
Questo ritorno di Twin Peaks ha cavalcato entrambe le modalità. Ha avuto vette di bellezza ed emotività assolutamente incredibili. Ha settato standard semplicemente inarrivabili per tutte le altre serie tv. Ci ha letteralmente offerto il dono di assorbire, per un’estate intera, un qualcosa che in tv non si era mai visto e mai si rivedrà. Ha regalato momenti di pura gioia e innocenza, alternandoli ad un’atmosfera di sontuosa inquietudine e malessere umano. Ha creato uno stato di stupore che neppure il miglior cinema riesce a instillare. E purtroppo alla fine, con testardaggine, è andato dritto per una strada che non ha portato nulla. E cancellando il corpo di Laura Palmer avvolto nella plastica sulla spiaggia ha cancellato anche anni di emozioni dei suoi spettatori.
In tutto questo, David Lynch si è comportato come un troll. E allora è giusto rispondergli continuando a trollare.
Dopotutto, anche questo mio lungo sfogo è una forma di provocazione. Rappresenta la risposta emotiva, e non cerebrale, ad un qualcosa che non può essere valutato con i criteri solitamente usati per le altre serie o film. Potrei aver irrazionalmente apprezzato tutto, ma per trollare ho ingigantito i problemi essenziali. Soprattutto, nonostante la mia lucida confidenza, potrei aver capito molto meno di quello che credo, e finirei a rivalutare mio malgrado tutto pur affogando nel loop delle mie convinzioni fallate.
Lo abbiamo sentito tante volte nella serie e in questo doppio finale: la percezione del sogno supera quella della realtà. E allora forse è solo questo ciò che conta.
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Emanuele D’Aniello