Arrivati alla conclusione di questa 2° stagione, finalmente ho capito tutto.
Sì, ho avuto quasi un’illuminazione sulla via di Damasco vedendo la chiusura di The Handmaid’s Tale. Chiusura si fa per dire, poiché tornerà per una terza stagione già certa. E, vedendo i premi o altro, chissà per quanti altri anni tornerà. Ma come tornerà? Perché in questa seconda stagione i problemi sono stati tanti, i difetti onnipresenti, il ritmo calato, i punti interrogativi innumerevoli, le scene bizzarre continue.
Almeno stavolta, appunto, ho capito tutto. Ho capito perché June e Serena prima si odiano, poi sembrano alleate, poi tornano ad odiarsi improvvisamente e nel finale, ancora, sembrano tornare sulla stessa lunghezza d’onda. Ho capito perché il colpo di scena di metà stagione, un attentato, invece di cambiare gli equilibri della serie ha avuto zero effetti sulla narrazione generale. E ancora, ho capito perché la serie fa un passo avanti e due indietro, ad iniziare col personaggio di Emily. Infine, già che ci siamo, ho capito pure perché June prova a scappare due volte e alla terza occasione, la migliore, decide lei stessa di non scappare.
La risposta è più basilare di quanto pensassi. Semplicemente, The Handmaid’s Tale non ha più senso.
Fuori dal guscio protettivo del romanzo di Margaret Atwood, spina dorsale narrativa e tematica della prima stagione, la serie ha perso la bussola. Gli autori si sono come immobilizzati: da un lato titubanti sull’andare avanti, consapevoli di avere chissà quante stagioni ancora per raccontare una storia già arrivata evidentemente agli sgoccioli; dall’altro lato, realmente incapaci di capire come andare avanti con una storia da continuare e creare ogni volta ex novo.
Il problema di fondo, forse, è che The Handmaid’s Tale ci presenta una storia limitata. Il suo nocciolo va bene per una miniserie, andare avanti per anni è davvero dura. Soprattutto se la prima stagione è stata, sotto quasi ogni aspetto, un impressionante apice qualitativo difficilmente ripetibile. Il rischio è quello di perdere il contatto col materiale che si ha. Allora si compiono scelte insensate, come quella di June, o Serena.
Se costruisci un linea narrativa sull’ipotesi di fuga, e lo strazio di un personaggio sulla perdita di una figlia, non ha senso che adesso la tua protagonista quando può fuggire non lo faccia, e scelga di abbandonare consapevolmente una seconda figlia. Oltretutto, salutandoci come fosse un rivoluzionario, o Rambo. Se costruisci Serena come un mostro, o quantomeno come complice di altri mostri, non ha alcun senso che lei si interessi a migliorare la condizione della donna in Gilead. Vi ricordate che a Gilead le donne non hanno proprio una condizione? Non hanno diritti? Perché dovremmo sperare migliori la situazione, il che vorrebbe dire comunque lasciare intatto il regime oscurantista, e non sperare Gilead venga direttamente distrutta?
Non è tanto una vera crisi di qualità il problema. Infatti, The Handmaid’s Tale rimane una delle serie tv meglio recitate e meglio realizzate dell’intero panorama attuale. La preoccupazione, semmai, è che la serie stia attraversando una seria crisi d’identità.
Cosa è, e cosa vuole essere, The Handmaid’s Tale? Lo scorso anno, la sua grandissima fortuna fu quella di anticipare i movimenti femminili adesso in auge, diventandone un vero simbolo. In poche parole sembrava, anche vedendo la situazione politica globale, una serie spaventosamente profetica. Tutto in maniera piuttosto inconsapevole, appunto. Ora che quel vento invece lo conosce, e vorrebbe provare ad approfittarne, ha tirato fuori tutta l’inconsistenza di un prodotto di finzione. In pratica, se lo scorso anno puntava al disagio, all’orrore come monito per lo spettatore, quest’anno ha virato sui momenti cool, su un’ironia quasi grottesca e perciò spesso fuori posto, sul piegarsi ai tempi invece di plasmarli.
Un finale che non solo lascia l’amaro in bocca, ma diventa frustrazione vedendo l’andamento dell’intera stagione. E col pensiero all’anno prima, ancora peggio. Ma la speranza – la serie ci vuol dire che un po’ di speranza c’è ancora, e allora facciamola nostra – è che il ritorno il prossimo anno sia degno dell’incredibile materiale tematico e attoriale a disposizione.
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Emanuele D’Aniello