Fatico ancora a cogliere il significato di The Handmaid’s Tale in questa seconda stagione.
Tutte le caratteristiche che ne hanno decretato il successo il primo anno ci sono ancora, intatte. Eppure, qualcosa non va. Non che manchi, anzi, forse c’è qualcosa di più addirittura.
C’è un senso, piuttosto evidente, di smarrimento generale. Come se anche gli autori ancora non avesse capito e inquadrato bene cosa fare andando avanti con la storia. Spesso ci sono parentesi ridondanti, altre volte flashback inutili. E la linea guida degli orrori su cui si fonda il tema della seria pare girare vorticosamente su sé stesso.
Ripartiamo da June, naturalmente.
Lei è il cuore della serie, e allora vive dei pregi e difetti della serie stessa. Il suo percorso doloroso è un ciclo di sofferenze che si ripete, sempre uguale ma ogni volta sempre più pesante e insopprimibile. I suoi sensi di colpa che sembrano piegarla, ma le danno pure coscienza per promettere al nascituro di non farlo vivere in quel clima di terrore, compongono un mosaico di bruttezza che pare ripetersi senza sosta.
E senza sosta, ugualmente, The Handmaid’s Tale pare andare avanti per poi invece ripetersi. La fuga di June è durata appena un episodio, e poi è tutto è tornato alla normalità. La storia si è nuovamente fermata, e fatica a sorprendere o spaventare.
Questa seconda stagione non è da buttare, e dopotutto non siamo nemmeno arrivati a metà. Però non sta mostrando nulla di nuovo, o di diverso, da ciò che già sapevano. Soprattutto, pare mancarle il coraggio, l’audacia di modificare lo status quo, la chiarezza su come e quanto andare avanti. Forse, data la vicenda, The Handmaid’s Tale è una serie a tempo che non può andare avanti all’infinito ma, complice anche il successo enorme e inatteso, ancora non sa quanto andrà avanti, spiazzando i progetti degli autori.
La potenza emotiva è rimasta, così come la capacità di creare un disagio senza pari. Basterà però ripetere semplicemente la formula per avere successo?
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Emanuele D’Aniello