Il finale di una serie tv è forse la cosa più bella e brutta che ci sia. Bella perché è il momento più atteso, talvolta atteso anni, del quale si sa benissimo si parlerà per chissà quanto tempo. Brutta perché, inevitabilmente, non potrà mai accontentare tutti, perché ognuno nel corso del tempo si è costruito un’idea e un proprio finale preferito, spesso motivatissimo e sensato, oltre che emozionale.
Prendete tutto questo e amplificato più che potete applicandolo a Game of Thrones, la serie tv più seguita e chiacchierata dell’ultimo decennio.
Che la serie realizzasse un finale senza ombre, senza sbavature, era praticamente impossibile. Ciò non vuol essere un alibi, ma una mera constatazione di quanto la natura seriale, costruita sul raggiungimento di un finale, in realtà sia per sua stessa essenza più forte e soddisfacente nel viaggio che compie, perché permette allo spettatore di percorrerlo insieme nel corso di anni, piuttosto che nel traguardo finale.
Che poi in realtà del traguardo finale di Game of Thrones c’è poco da dire. E questo è il vero paradosso che diventa difetto. Accade esattamente ciò che doveva accadere, nella maniera più lineare e logica potesse accadere.
Daenerys, ormai trasformata in tiranno, viene uccisa da Jon, l’unico che si immaginava potesse farlo, e questo gesto cambia la natura del regno rendendolo più collegiale e meno verticale, lasciando il comando ultimo a Bran, colui che è l’antitesi perfetta di Daenerys: se lei ha dimenticato il proprio passato, accecata dalla necessità del potere e di una prospettiva di giustizia del tutto personale, Bran grazie al dominio sulla conoscenza dell’intera storia dei continenti è il ponte incarnato tra passato e futuro, il legame delle storie del popolo, la fonte di saggezza definitiva. Si sceglie la conoscenza e la competenza rispetto alla forza e alla tracotanza (se volete vederla come allegoria sulla politica attuale mondiale, non lo impedisco).
Il problema di questo finale, pertanto, non è “cosa è successo”, ma il “come è successo”.
Per una serie così gigantesca, così ricca di personaggi e tematiche, nella quale ogni gesto e parola ha avuto conseguenze che hanno scatenato terremoti dall’eco lunghissimo (nello spazio geografico e nel tempo), il finale è stato assolutamente sobrio, misurato, di basso profilo. Talmente lineare e silenzioso da sembrare una pratica da sbrigare senza troppo rumore, senza troppo impegno. È palese che gli autori sapessero, da tempo, come voler far terminare la storia. Soprattutto come volerci arrivare dal punto di vista tematico e della coerenza narrativa. Ma a quel punto si è arrivati (e probabilmente, loro sono arrivati così) in maniera molto stanca, un po’ spenta, quasi svogliata.
Ripeto, il peso di terminare una serie evento diventata fenomeno culturale come Game of Thrones è insormontabile. Gli eventi sono tutti giusti, la maniera di svolgimento un po’ sofferente.
La tensione dell’omicidio di Daenerys è spenta dalla sua ineluttabilità (anche se la scelta di farla morire di fronte al trono tanto agognato, sul quale non riesce a sedersi, è una chicca). Gli archi narrativi dei personaggi erano già talmente tanto esauriti (vedi Arya, Brienne, Sam per fare esempi) che non avevano più nulla da dire, e in taluni casi sono finiti nell’inutilità. La simbolica scelta di separare il Nord dal regno, dopo tante stagioni in cui si è ventilato, avviene troppo facilmente con una frasetta.
Non è stata la mancanza di tempo o il numero ridotto di puntate. A mancare è stata la voglia e la maniera di fare le cose per bene, come una stagione finale avrebbe pienamente meritato. Indubbiamente, per meriti già acquisiti negli anni, Game of Thrones è già nell’Olimpo delle serie tv, ma non lo è per il suo finale.
Allora, nel chiudere l’epopea di questa grande avventura condivisa e commentata in tutto il mondo, non resta che rintanarci nel percorso di Jon Snow. Triste, tragico e bellissimo allo stesso tempo. Lui, nel suo arco fatto di solitudine umana, è il vero cuore di ciò che una serie sul potere, sul cercare il proprio ruolo in un mondo vastissimo, può insegnarci. L’uomo predestinato, il vero erede al trono, che tutti amano, tutti stimano, che tutti vogliono compia l’inevitabile, poi quando lo fa….è abbandonato da tutti, dai suoi alleati, dalla sua famiglia, da chi lo aveva spinto a fare quel gesto, e lasciato col dubbio e il rimorso di non sapere se ha fatto bene. Lui, amato e ripudiato, è la vera anima di cosa sia Game of Thrones, nei pregi e difetti.
And now our watch has ended.
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Emanuele D’Aniello