Sicuramente i fans del lato fantasy di Game of Thrones avranno trovato in questa puntata pane per i loro denti.
Dopotutto, è la puntata in cui l’adattamento dei romanzi “Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco” fa incontrare finalmente il ghiaccio e il fuoco. Introducendoli anche in maniera chiara, con la prima inquadrature che mostra il fuoco transitare verso una ripresa aerea di monti ghiacciati. Solo una delle tante meraviglie di una puntata girata divinamente. Alan Taylor mancava da parecchio nell’elenco dei registi della serie, ma dopo aver fatto esperienza con un paio di blockbuster cinematografici è tornato al piccolo schermo carico di idee visive e capacità di realizzare inquadrature semplicemente mozzafiato. Certo, i luoghi hanno aiutato molto, così come l’atmosfera funerea dell’intero episodio.
E la chiave è proprio qui, prima di tutto. Perché in una puntata in cui abbiamo visto l’ennesima battaglia, orde di non morti, draghi sputare fiamme, orsi zombie e persino un drago resuscitato, il tutto è rimasto in piedi grazie al coerente pessimismo che ha mosso ogni azione.
Non inganni il bianco della neve, questa è una delle puntate più nere dell’intera serie. Forse la prima che fa vedere quanto sia vicino il finale, e trasmette la sensazione di quanto rischi di essere amaro. Una puntata strutturata essenzialmente come “Battle of the Bastards” della scorsa stagione, con una grossa sequenza centrale e limitati, per lo stile della serie, excursus su altre trame. Esattamente come quella, quindi, lo storytelling rimane piegato alle esigenze di spettacolo, con deus ex machina che abbondano (forse l’apparizione di Benjen è uno dei momenti più involontariamente comici della serie) e con filo conduttore l’incapacità strategica di Jon Snow. Ma il risultato emotivo è il medesimo: se il successo di quella puntata viveva e moriva sull’empatia dell’odio verso il bastardo dei Bolton, ora il trasporto personale è legato all’anima nera che la storia propone.
Zombie non sono soltanto i non morti, è chiaro. Zombie è anche Arya, e fa male.
È fantastico vedere come le aspettative di chi voleva la toccante reunion delle sorelle Stark siano state ribaltate. Di commovente non c’è nulla. Dopotutto, che Arya fosse diventata una killer sociopatica non credo ci fossero dubbi, parlano le sue azioni. Che fosse diventata un guscio della sua precedente emotività è ancora più lampante. Arya è una vittima, ma al tempo stesso dispensatrice di morte. La morte che Tyrion prefigura costantemente a Daenerys, in maniera diretta e pure indiretta, toccando il tasto della successione.
Non è solo l’esercito zombie a simboleggiare la morte, troppo facile. La morte troneggia anche con la scelta del sacrificato tra l’A-Team di Westeros: a salutarci è Thoros di Myr, l’unico che non a caso aveva il potere di riportare in vita. Ora anche colui che pareva immortale, come Beric, è esposto all’inevitabile, e anche gli altri non possono più scappare, non c’è più un piano B. Si è tutti davanti a quel pozzo buio che diventa reale solo quando ci si è contatto. E allora anche Daenerys la conosce non vedendo gli zombie, ma soffrendo per la caduta del suo drago.
Game of Thrones non è mai stata una storia ottimista, o leggera, o avvincente fine a sé stesso. La serie si apre con un’esecuzione, e nella stessa ora c’è un incesto e il tentativo di uccidere un bambino. Ma mai come in questa puntata si è respirato un clima di pessimismo, finalità, predestinazione alla sofferenza, resa al caos. Probabilmente la vera natura del racconto, o del mondo in generale, è proprio questa. E l’avvicinarsi improcrastinabile del finale di serie, metafora assoluta, è l’assist perfetto per addentrarci nella notte oscura e piena di terrori.
.
Emanuele D’Aniello