A pensarci bene, beffardamente, avere la libertà di scelta è anche sinonimo di caos.
Il tema di questa stagione di Fargo è stato sicuramente il caos della vita umana e la sensazione costante e imminente dell’arrivo di qualcosa di negativo. Il rischio dell’Apocalisse insomma, e la possiamo intendere in molte forme. Nel gioco delle ispirazioni dal cinema dei Coen, le stelle polari sono state A Serious Man e Non è un paese per vecchi.
Ma naturalmente, quando ci realizza un lavoro complesso, le chiavi di letture sono molteplici. E questa stagione non ha mai fatto mistero di voler indagare e decostruire il ruolo delle storie nel nostro immaginario collettivo, come esse siano importanti nella narrativa quotidiana e come possano manipolare la realtà, fino a piegarla e reinventarla ex novo. Artefatta e corrotta, probabilmente, ma pronta per essere creduta e sfruttata da chissà chi.
In questo, recensendo alcuni episodi precedenti, ho volutamente sproloquiato vedendoci una critica alla realtà politica contemporanea americana. Ma considerazione a parte, Fargo ha voluto proprio mostrare l’importanza del racconto.
Il finale ambiguo, il primo in tre stagioni, è piuttosto lampante in tal senso.
Varga ha continuamente raccontato storie, vere o meno, e fino alla fine propone una sua versione della realtà. La quale diventa vera soprattutto perché lui è il primo a crederci con forza. Essere convinti quando si dice qualcosa, soprattutto se forse falso, è tutto. L’agente Gloria risponde con la sua versione dei fatti, che suona molto più probabile, ma non per questo finirà per accadere.
Siamo nell’epoca degli alternative facts, che qualcuno ha già bollato come quella della post-verità. Varga è un personaggio fittizio, ma è un perfetto figlio dei nostri tempi, uno che con internet farebbe faville. Conosce il modo di raccontare, di vendersi, dell’importanza di trasformare le bugie in narrativa. E’ lui il vero vincitore mortale dell’intera stagione.
Questo, alla fine, è il vero caos che la stagione di Fargo ci ha mostrato. Non la casualità sfortunata del nome Stussy. Non la fortuna di Emmit, che lo abbandona quando non serve più. Nemmeno la fine accidentale di Nikki, che dopo aver previsto ogni mossa non può immaginare le minuscole variabili. Il caos è esattamente questo, saperlo riconoscere e ripiegarlo a proprio piacimento. Lo faceva Anton Chigurh, lo fa ora Varga. E quindi offrilo a noi sotto forma di libertà di scelta, di democrazia, è la confusione finale. Noi siamo gli stupidi che i Coen mostrano nei loro film, noi crediamo di avere libertà ma invece, scegliendo tra la verità e la verità costruita, già diventiamo marionette.
Nel suo tema centrale, Fargo ha assolutamente azzeccato gli obiettivi. Però nel modo di narrarlo a noi spettatori sono usciti i tanti difetti.
Ed è incredibile che una stagione incentrata sulla forza del racconto si sia incartata sciogliendo il proprio racconto. E’ un paradossale scherzo meta sicuramente non voluto. Ma i difetti evidenziati fin dall’inizio e in ogni recensione, ovvero l’eccessiva natura derivativa della serie da sé stessa e dal materiale originale, non sono mai stati del tutto superati. Anzi, se possibile sono stati anche accompagnati da deludenti scelte di caratterizzazione.
Se infatti Varga e Nikki sono stati gli MVP della stagione, non possiamo dire lo stesso dei protagonisti di facciata. Emmit è diventato un vero personaggio tridimensionale sono nel penultimo episodio, mentre Gloria è rimasta sempre passiva e, alla luce della conclusione della vicenda, con un ruolo tremendamente inutile nella narrazione. Un peccato accentuato per lo spreco del talento di Carrie Coon, mai veramente utilizzata a dovere. Senza contare una messa in scena troppo innamorata di sé stessa, in cui spesso la forma ha superato (inutilmente) la sostanza.
E’ chiaro, vedendo questi difetti ed i pregi prima elencati, e leggendo le dichiarazioni del creatore Noah Hawley sul futuro dubbio della serie, che lui stesso si è ritrovato impantanato. Da un lato voleva raccontare altro, qualcosa di attuale, ma si è trovato costretto ad infilarlo a fatica negli schemi narrativi già rodati delle precedenti stagioni di Fargo. Il risultato è stato interessante ma confuso, richiamando involontariamente proprio il tema centrale.
La speranza allora, per lo stesso Hawley, è che possa superare l’esperienza di Fargo e provare altro. Noi ci teniamo il cinema dei fratelli Coen e lui prova altro. A me sembra una win-win situation, e a voi cosa ve ne pare?
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Emanuele D’Aniello