Sapete quale è il punto, semplicemente? Better Call Saul ha già vinto.
Ci siamo salutati lo scorso anno quando criticai il finale, a dir la verità. Annusavo una certa ripetitività, temevo lungaggini ridondanti per cui sarebbe stato meglio chiudere la storia (e così non sarà, perché la serie è già stata rinnovata per una 5° stagione). Però, al netto di queste problematiche insite in qualsiasi serie tv che non programma la propria fine, Better Call Saul quando va al meglio tocca una qualità generale che pochissimi possono permettersi nel panorama televisivo attuale.
La forma è perfetta, la recitazione maestosa, la scrittura acutissima. Tutte eredità del genitore Breaking Bad, ma soprattutto con un elemento in comune: l’indagine sociologica nella mente spettatore. Per questo la serie ha già vinto: ha fatto cadere la maschera delle nostre aspettative, come sempre ribaltandole.
Ricordiamo come Breaking Bad fosse la storia di un uomo buono diventato cattivo. Più la serie ci diceva “come fate a tifare per lui” più noi tifavamo per Walter White, e allora iniziava un escalation di crudeltà che trascendeva la semplice empatia. “Davvero vi piace Walter White? E vi piace anche ora che fa questa cosa orribile?” era il mantra della serie. In un certo senso, Vince Gilligan quell’intenzione introspettiva l’ha portata anche qui. Ci siamo approcciati a Better Call Saul con la voglia di vedere come l’innocuo Jimmy si trasformasse nel cinico Saul. Il nostro fine era solo quello, più si andava avanti, più la curiosità aumentava. Ora però abbiamo conosciuto il vero Jimmy, ci siamo appassionati alle sue gesta, abbia sofferto dei suoi errori e scoperto il suo lato umano. Da fans vogliamo (ri)vedere Saul Goodman, ma come possiamo allo stesso tempo volere che il povero e malinconico Jimmy si trasformi in cattivo? Adesso ci dispiace che la sua natura venga, inevitabilmente perché già lo sappiamo, corrotta?
Forse sì, lo vogliamo davvero, nemmeno poi tanto inconsciamente. Allora non sono cattivi questi personaggi, siamo cattivi noi spettatori.
Così come era Breaking Bad, adesso Better Call Saul si conferma una acutissima indagine della mente umana mascherata da intrattenimento. Anche in questo ritorno lo fa sempre con calma, sempre coi suoi tempi, perché è una classica puntata di Gilligan: succede quasi niente, e in realtà succede tantissimo. Dalla tensione del prologo iniziale, letteralmente insostenibile – avremo risposta a tutti questi flashforward? – allo stupore del finale, nel quale Jimmy compie l’atto che finora lo avvicina più del resto a diventare Saul: fregarsene. Sì, fregarsene di ciò che lo circonda e del prossimo. Passare il suo senso di colpa ad un altro, liberandosene per sempre, pur sapendo che in realtà la colpa è sua.
In mezzo, il solito fantastico Mike, per il quale ho sempre pronta la richiesta di spin-off intitolato “Mike che fa cose” e lo veda davvero in giro semplicemente a fare cose casuali. Sarebbe già un capolavoro annunciato. Guardarlo muoversi con la sua faccia sempre tra l’annoiato e il tranquillo trasmette un senso di fiducia senza pari: raramente sa quello che fare, improvvisa, ma poi sa sempre come farlo con estrema sicurezza. Una dote unica per un personaggio unico.
Mike è davvero, più del protagonista, l’essenza di Better Call Saul: calmo, lento, metodico ma sicuro, su cui possiamo sempre fare affidamento. Pare non avere più tantissime cose da dire arrivata alla quarta stagione, ma quello che ha lo dice meglio di qualsiasi altra serie. E, soprattutto, riesce sempre a metterci davanti allo specchio per farci vedere ciò che si cela dentro di noi.
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Emanuele D’Aniello