Quando si apre la chiamata, Lauro de Marinis – meglio noto come Achille Lauro – ha il volto struccato, se non forse per un lieve accenno di matita scura sotto gli occhi. Appare affabile ma al tempo leggermente contrito nella sua giacchetta di velluto verde, seduto davanti alla cover gigante del suo ultimo album: “Lauro”. Non vuole perdere tempo, si capisce, inizia a parlare rompendo gli indugi: quello uscito a mezzanotte del 16 Aprile è infatti il suo ultimo album e mentre ne parla nella conferenza su Zoom la voce gli vibra. Lo ribadisce a più riprese, lo dice a chiare lettere “Abbiatene cura di queste canzoni.”
Un racconto intimo
“Lauro” è il punto di arrivo di un percorso iniziato più di un anno fa, una fotografia di chi adesso è diventato. L’ultima immagine che ci consegna di sé prima di tornare a vivere di nuovo.
E parlando delle due macro-aree dell’album, parla di lui: la prima parte è l’uomo tormentato, malinconico, il ragazzo che guarda al passato ossessionato dall’idea grandiosa di futuro che, così facendo, si priva drammaticamente del presente. A chi gli chiede il perché di questo suo tormento, Achille risponde serissimo: “Tutti per natura siamo tormentati, chi di meno, chi di più e guarda come a dire “io di più””. La seconda parte è ancora l’artista rock del tempo di “Rolls Royce”, la parte del sognatore vitale, del “voglio una vita così!”
Con un gesto semplice della mano, indica la cover alle sue spalle, ci fa capire che ora cambia discorso. La cover, infatti, è fortemente simbolica e minimalista, un quadro. Il gioco dell’impiccato, l’omino completo, L A U R e una O aggiunta in rosso, la lettera mancante. Per ogni lettera, l’artista ha voluto ispirarsi ad un genere musicale incarnato, gli stessi che ha rappresentato a Sanremo.
Si sofferma poi a raccontarci qualche titolo: è semplice, diretto, non ha paura di esporsi, quasi sembra averne l’esigenza. Ci tiene che tutto sia chiaro visto che con i social tutto può essere frainteso, aggiunge laconico, e riprende a parlare con la stessa profondità di poco prima.
Qualche titolo
“Generazione X“, per esempio, è la storia della sua generazione: è gente che non crede, né in sé stessa né in Dio. Che lavora per soldi e non per essere- concetto a cui tiene, infatti lo ribadisce una seconda volta. Gente che accetta le proprie dipendenze passivamente, come quella con la tecnologia.
Un riferimento generazionale è anche in “Latte+“, alla stessa generazione di cui prima, vista stavolta per la sua ossessione costante nell’avere, appunto, sempre qualcosa in più.
Sprofonda nel personale invece “Femmina“: racconta un certo tipo di mascolinità tossica, dell’essere uomo ad ogni costo. Achille torna a raccontarsi, fa mea culpa: ha avuto paura di diventarlo, così.
Questo tipo di mentalità, continua, è radicata soprattutto in certi posti, e dov’è cresciuto, nelle periferie romane, è dilagante. Due cose l’hanno salvato: la consapevolezza di chi volesse essere e quindi l‘amore per la scrittura – accenna a delle notti lunghe insonne, trascorse a scrivere testi- e la consapevolezza di chi non sarebbe mai voluto diventare, cioè un certo tipo di uomo che aveva avuto attorno.
Prima di chiudere la chiamata, però, si ferma, sorride: “Sperando di vederci presto live!”.
Quindi, caro Lauro, non è un addio, questo tuo ultimo album?
Serena Garofalo