“Ognuno riconosce i suoi”: ritratto di nazione in un interno

Neri Pozza

Elena Rausa pubblica per Neri Pozza la sua seconda fatica letteraria.

“Ognuno riconosce i suoi” è un delicato ritratto familiare e umano, in cui la storia della nazione emerge sempre più potente dalle pieghe del vissuto, attraverso un filtro memoriale che restituisce affetto e stordimento, angoscia e riflessione. Senza mai perdere la grazia.

Caterina ha vent’anni, una laurea da conseguire e un futuro ancora incerto da vivere – figuriamoci da immaginare. Ariete, testarda e generosa, ha rivoluzionato con il suo arrivo la vita calma di Sandro e Teresa, mai chiamati mamma e papà per un vezzo di bambina che è quasi, incredibilmente, un vizio di forma. Nella vita, del resto, c’è sempre qualcosa impossibile da calcolare. Qualcosa che non può essere assicurato perché imponderabile, imprevedibile. Come una pioggia di sabbia in montagna, come un picco di gelo intenso nel cuore dell’estate. È qualcosa di raro, di non impossibile, a cui non si pensa perché ci si lascia cullare dall’abitudine, dal senso comune, dalla convinzione che ogni stranezza – in fondo – è solo un’innocua peculiarità.

Eppure la vita, con i molteplici eventi che la compongono, contiene essa stessa un vizio di forma.

Che si manifesta in particolari minimi, trasforma un porto sicuro in una tempesta sradicatrice. Una certezza in un abisso. Una buona intenzione in una débâcle devastante.

È così che Michele, il cugino di Caterina, si ritrova in coma farmacologico dopo un salto dal ponte. Una, due, tre volte, fino al disastro. L’imponderabile. Caterina ricorda la sua «tempra durissima», i tuffi da bambino che non ha paura del mare e vuole sfidare il blu, il verde, qualsiasi colore di acqua. Ma Michele si è fatto male, e dalla disgrazia è allora un dovere tentare di recuperare qualcosa. Guardare oltre per non morire, riordinare i tasselli per non lasciare sospese le incongruenze taciute. Le incalcolabilità incalcolate.

Decide allora di scrivere a Michele. È un racconto silente, rivolto a chi non può rispondere, a un’assenza così presente da innescare un meccanismo di ricordi come un dovere morale. Un lavoro di archivio, necessario e impellente.

«Ognuno ha diritto alla sua parte di dolore e di rabbia. E infatti cerco, mi sforzo di ricordare, scrivo, perché qui dentro ci sia per intero tutto quello che siamo e tu abbia almeno una storia a cui tornare».

E così viene aperto il cassetto dei ricordi, con una penna in mano e un quaderno sulle gambe. Davanti a un letto di ospedale, con le macchine a segnare battiti di vita, mentre altri battiti – nascenti, in divenire – premono in grembo. Vita sospesa e vita che si affaccia, in un ciclo che è lì a ricordare come il tempo sia troppo veloce per lasciare cose inespresse. Interrogativi taciuti.

Neri Pozza
Elena Rausa, autrice di “Ognuno riconosce i suoi” (Neri Pozza)

E allora Caterina ricorda, per accomiatarsi teneramente, dolorosamente, con le cose della vita – della Storia – «prima che siano estinte» [1]. Ma ogni esercizio di memoria è un puzzle emozionale di realtà e finzione, rievocazione e reinvenzione. Aprire il cassetto dei ricordi è come togliere i lucchetti a quelle stanze in cui l’accesso, da bambini, ci era misteriosamente negato. Ci si accosta ad essi con un misto di impazienza e pudore, con il timore, inconfessabile, di rovinare un sogno da tanto tempo coltivato. Pazientemente costruito.

«Fingiamo tutti, abbiamo tutti bisogno di crederci qualcuno».

Non è mai chiaro dove finisce la storia e inizia il mito. Dove il lavorio della mente lascia la strada dei fatti per imboccare il sentiero scosceso, articolato, dell’auto-rappresentazione. È così nella storia di ognuno, è così nelle storie familiari.

Gli album di famiglia, poi, sono pieni di spazi bianchi. Vuoti lasciati da foto sbiadite, didascalie cancellate, immagini sottratte. Per ricostruire non basta andare a ritroso, da soli, nella mente. Occorre interrogare, mettere insieme pezzi, lanciarsi in un tentativo di «archeologia familiare».

«Non sai mai dove finisce il ricordo e inizia la mitologia familiare, per questo ho bisogno anche di loro. Chiederò, scriverò, ne uscirà un ricordo che non appartiene per intero a nessuno, apocrifo, ti dico, come sono tutti i ricordi, ma forse, lo stesso, in questo gioco di specchi ci riconosceremo».

E così Teresa racconta, Sandro racconta. Tra ritrosie e ammissioni. Confessioni e invenzioni.

«In effetti non lo so, Michele, metto insieme i pezzi, immagino. Ci sono cose che ho sentito o creduto di sentire, mezze frasi anche distanti di anni. A volte inventare è trovare quello che c’è».

I ricordi del resto non sono cose soltanto nostre. Si compongono di vissuto personale e narrato, di aspetti di vita sbirciati dalla serratura, quella delle famose stanze in cui non è concesso entrare. È così che nelle storie di famiglia si insinuano spettri e tabù, spazi vuoti che ci si ingegna a riempire come si può. Sono dolori che fa male rievocare. Che si tacciono per non permettere che altri debbano soffrire come abbiamo sofferto noi.

Accomiatarsi con il passato però prevede conciliarsi con esso, lasciare che i fantasmi assumano un corpo e dicano finalmente ciò che hanno fatto.

Quello che hanno vissuto, quello che hanno fatto vivere.

Così con grazia Elena Rausa racconta del viaggio di Caterina nei locali della memoria, dove vissuto personale e collettivo si uniscono per restituire un senso da sempre sfuggente.

Neri Pozza

Tra Milano e la Puglia, terra natia di Teresa, si snoda un racconto di certosina catalogazione, mai fredda e monotona nella sua ansia di risposte e ordine. Caterina mette insieme pezzi, salvaguarda qualcosa del tempo in cui non saremo mai più e, con pazienza, unisce i momenti di ieri alla grande storia che li permea e li travalica. Il boom economico e la compagna di classe che viene dal Sud. Lo zio Nicola che conosce il dramma della droga. Il tempo delle occupazioni e degli scioperi e poi gli scontri, le bombe, il piombo rosso e nero. La caduta delle buone intenzioni.

Su tutto l’album di famiglia aleggia infatti un’altra assenza, un fantasma su cui si è abbattuta una damnatio memoriae che ha tanto di personale quanto di nazionale. È Anna, la madre di Michele, che lo ha lasciato a Sandro e Teresa perché inseguiva la sua guerra. Quella di chi ha avuto torto, «drammaticamente torto», quando gli altri, però, «non avevano ragione».

Anna che è una terrorista, mai dissociata e mai pentita, figura ridotta a immagine su una credenza, «un nome e basta». Ridotto al silenzio.

È la sua storia il perno intorno a cui ruota un passato sospeso e mai elaborato. Un passato pubblico e privato di non conciliazione, in cui si fa fatica a fare i conti con il vizio di forma, che si annida in famiglia e nella vita, tra le quattro mura e sul teatro del mondo.

La forza del romanzo di Elena Rausa sta tutta qui, nell’aver usato la chiave intima per svelare – o spiegare – certi meccanismi della storia recente. In cui i postumi del trauma non si riescono a elaborare, in cui si cercano sempre nuove forme per tentare di dire, sviscerare, superare. Le conseguenze della scelta di Anna si riflettono con dolore sulla madre, su Sandro, su Michele. Il pianto della mamma a San Vittore, prima del colloquio, è il pianto di tutta la nazione.

È la solitudine, l’incapacità di esprimere pareri, l’impressione di essere innocenti ma, al contempo, anche un po’ colpevoli. Perché confini netti non servono, non esistono, e non aiutano a fare giustizia.

Ad essa pensano i tribunali. Nella memoria, e nei libri, c’è spazio per le emozioni. Che aiutano a riconciliare, a non giudicare. A fare i conti con un passato che non si compone di morti e feriti da enumerare sulle targhe, da mandare a memoria come individui di carta da dividere nelle colonne dei buoni e dei cattivi. Ogni dramma pubblico porta con sé un dolore privato. Elena Rausa l’ha raccontato, l’ha immaginato. E con delicatezza impareggiabile ha mostrato che nella storia, in ogni storia, ognuno – davvero – riconosce i suoi.

Ginevra Amadio

Elena Rausa
Ognuno riconosce i suoi
Neri Pozza
I Narratori delle Tavole
304 pagine, 17 €

[1] Come recita la frase di Cristina Campo posta in esergo (C. Campo, Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987).

Giornalista pubblicista, laureata in Lettere e Filologia Moderna. Lettrice seriale, amante irrecuperabile del cinema italiano e francese.

COMMENTA QUESTA DOSE DI CULTURA

Lascia un commento!
Inserisci il tuo nome qui