È di recente uscito per i tipi de Il Saggiatore il libro La lingua è un’orchestra, di Mariarosa Bricchi. Protagonista del saggio è la lingua, che viene analizzata minuziosamente nei suoi dettagli e illustrata nella sua meravigliosa omogeneità.
Il sottotitolo dell’opera cita: Piccola grammatica italiana per traduttori (e scriventi).
Diciamo che non si tratta di un sottotitolo da niente. Affatto trascurabile perché suggerisce il destinatario dell’opera. La grammatica è rivolta ai traduttori e, più in generale, a colui che scrive. Lo scrivente, appunto.
Il libro affronta punti nodali della linguistica e della grammatica italiana. Passando dal testo, considerato nel suo etimologico significato di tessuto, si arriva a considerazioni più generali sull’italiano standard e sui dialetti.
Non sono mancate panoramiche generali sulle parole. Analizzando i neologismi e i foresteismi, Bricchi parla anche di dizionari storici e di sinonimi. La parola, insomma, unità cellulare della lingua, viene decorosamente raccontata nella prima parte del saggio. Quasi fosse un prisma, ogni capitolo ne illustra le numerose sfaccettature. Il risultato è un mix perfetto di tutto quello che la lingua costituisce.
Quando diciamo che tutti gli aspetti sono stati trattati, intendiamo dire che lo sono stati anche da diversi punti di vista. Sono state prese in considerazione sia la componente sociale, che quella geografica, così come quella storica che quella diamesica non sono mancate. Ad avallare le teorie dell’autrice, accorrono, inoltre, numerosi esempi di traduzioni che provano con la propria testimonianza le tesi trattate.
Tra le varie, è suggestiva la riflessione su un italiano malato di congiuntivite, in cui si mette nero su bianco che l’italiano più che soffrire di mancanza dell’uso del congiuntivo, ne è addirittura saturo. L’avreste mai detto leggendo i vari post sui social network?
Tuttavia la riflessione che più colpisce, in tutto il saggio, è quella che concerne l’antilingua.
Bricchi riprende la definizione che Calvino dà dell’antilingua, come quella lingua in cui le parole si allontanano dai significati. In cui il significante si separa dal significato. La lingua viene uccisa nel momento in cui la parola viene svuotata del suo preciso significato, confinando il vocabolo in un’area di indefinita vacuità.
La grandezza di una lingua sta proprio nella sua capacità di strutturare la realtà e di renderla comprensibile durante il processo comunicativo. Questo tarlo, che dal boom economico connota i media, è d’altra parte stato oggetto anche di una delle gag cinematografiche più famose di sempre. Non è possibile non ricordare i celebri exploit di Tognazzi in Amici miei che con un dialogo formalmente e mimicamente corretto consente ai suoi compari di salvarsi pur non dicendo assolutamente nulla di sensato..
Per quanto questo esempio possa essere eccessivo, si tratta di uno stralcio del cinema nostrano in grado di mettere perfettamente in mostra quanto sopra detto. L’antilingua si dissocia dalla realtà non significando nulla di comprensibile. È un rischio che possiamo continuare a correre? Possiamo permetterci che la lingua non sia più una lingua?
Serena Vissani