E’ possibile parlare di immigrazione in un modo diverso, non banale magari utilizzando anche la musica per spiegare verità elementari che, però, non sempre ci vengono date? Fabio Prata con il suo libro sull’immigrazione lo ha fatto. Ecco le sue parole.
Perché si emigra? In un periodo storico in cui di immigrazione si straparla, discuterne in modo pacato e competente credo sia il modo migliore per non offendere la verità.
Per questo ho incontrato Fabio Prata che, poco meno di due anni fa, ha scritto Una schiavitù chiamata migrazione. “Se ti prendono per fame prima o poi ti fanno ostaggio…” Edito da UniversItalia.
Si tratta di un libro ben fatto e che giustamente ha raccolto tanti consensi, tanto da essere stato adottato dall’ultima edizione della Giornata Mondiale del rifugiato, che si è tenuta lo scorso giugno nella città di Latina.
Come nasce Una schiavitù chiamata migrazione?
Nasce una mattina in tangenziale, che, scritta così pare il titolo di un film. Stavo andando al lavoro, e mentre ascoltavo “Non finisce qui”, una canzone del cd dei Gang “Sangue e cenere” vengo letteralmente rapito dal verso “Se ti prendono per fame, prima o poi ti fanno ostaggio”.
Fu un’intuizione. Da quel momento ebbi forte la necessità di scrivere, di far diventare quel verso qualcosa di mio. Perché in quelle poche e semplici parole, trovai la risposta alla domanda a cui non si risponde mai: perché si emigra?
Quali sono state le tue fonti per stanare verità scomode?
Ho scritto il libro perché sentivo la necessità di comprendere il fenomeno migratorio e non potevo non partire dalla nostra emigrazione, quella che ha portato via dall’Italia 28 milioni di persone in un secolo. Sono stato al MEI, il Museo dell’emigrazione, una fonte inesauribile di notizie provenienti direttamente dall’epoca. E poi, soprattutto, ho setacciato l’arte. La musica dei Gang, quella di Benedetto Vecchio, dei Ned Ludd e degli MBL, ma anche le canzoni dei Modena City Ramblers e, ovviamente, dei Nomadi.
Non solo musica, però. Anche il teatro è stato una fonte, specie quello di Roberto D’Alessandro. Ho lasciato che fossero tutte queste storie ad indicare il percorso del libro.
Quali sono state le principali difficoltà in cui ti sei imbattuto per scrivere il libro?
Credo l’unica difficoltà sia stata quella di sfuggire, almeno tentarvi, agli slogan che ormai affliggono il dibattito sul fenomeno, alla propaganda faziosa. Ecco, la difficoltà maggiore è stata questa, proseguire il viaggio senza farmi trascinare dagli sterili “ci stanno invadendo” o “siamo stati anche noi emigranti”, “noi andavamo a lavorare, oggi importiamo solo criminali” o “allora la mafia in America chi l’ha portata?”
Frasi troppo spesso utilizzate e che non dicono nulla.
Come definiresti Una schiavitù chiamata migrazione? Un saggio, un racconto polifonico o cosa?
Includerlo nella categoria saggi è forse la cosa più ovvia, anche se non so se la più corretta.
La definizione “racconto polifonico”, invece, mi piace molto. In effetti nel libro ci sono moltissime voci, ci sono le canzoni, il teatro; ci sono i racconti, le inchieste; le voci degli ultimi, degli sconfitti; ci sono i dubbi, le perplessità. E poi quando si parla di migrazione, bisogna necessariamente parlare di Unità d’Italia, di brigantaggio, di terrorismo, di multinazionali, di sfruttamento del lavoro. Credo userò molto la definizione “racconto polifonico”.
Fra tutte le storie che racconti, quale credi meriti di essere sottolineata?
Tutte, naturalmente. Dall’altro volto della nostra Unità, alla storia tragica dell’Arandora Star; dai nostri bambini emigrati alla fine dell’800 alla storia bellissima di “Pasta nera”. Certo, Sankara è necessariamente in cima alla lista. Quando ho iniziato a scrivere, non sapevo nemmeno chi fosse, me ne ha parlato, un giorno, Roberto D’Alessandro.
Sankara è un personaggio che andrebbe studiato a scuola e soprattutto dai nostri politici. Invece… non lo conosce quasi nessuno.
Oggi l’immigrazione sembra essere il problema dei problemi. A tuo avviso perché?
Nel 1987, nel suo, purtroppo, ultimo famoso discorso sul debito, Sankara disse: “Le masse popolari in Europa non sono contro le masse popolari in Africa. Ma quelli che vogliono sfruttare l’Africa sono gli stessi che sfruttano l’Europa. Abbiamo un nemico comune”.
Ecco, oggi quel potere ha messo le classi popolari europee contro le classi popolari africane. Questa insensata guerra tra ultimi, permette ai primi di mantenere il proprio potere. Oltretutto, nel mondo del lavoro, l’immigrato è disgregante, i lavoratori non riescono più a fare fronte comune, crolla il costo del lavoro e le lotte per i diritti diventano, agli occhi dell’opinione pubblica, un arrogante tentativo di mantenere privilegi.
E poi, gli immigrati sono un eccellente arma di consenso elettorale.
Credi che il sogno di Sankara, il presidente del Burkina Faso che negli anni Ottanta cercò di salvare il suo paese dalla perenne povertà, abbia ancora posto nel mondo?
No. Purtroppo no. In fondo già negli anni ’80 non ha trovato posto, tanto che è stato ucciso dopo quattro anni di governo. L’uomo è troppo “fallibile” per riuscire a perseguire ideali così alti. Eppure, ci sarebbe così bisogno di Thomas Sankara, della sua etica.
Nella bellissima dedica che fai a tuo figlio, gli auguri di crescere libero. Cos’è oggi per te la libertà?
Sempre più una chimera.
Per carità, siamo liberi di fare ciò che vogliamo, ma la sensazione è che quella che crediamo libertà, sia in realtà “deregolarizzazione”. Ormai i nostri comportamenti, i giudizi, sono sempre meno nostri, sempre più manipolati, indotti. Consumiamo idee, opinioni, prodotti, ad una velocità preoccupante.
Non vorrei sembrare eccessivamente pessimista, d’altronde lo diceva già Pasolini che da cittadini eravamo stati trasformati in consumatori. Oggi credo siamo ad uno step successivo, oggi siamo “consumati”.
Per quanto riguarda la libertà di mio figlio ho scritto questo libro in un momento, per me e per lui, molto particolare. C’era, e c’è, la necessità di essere se stessi fuori dai ruoli assegnati, dai condizionamenti imposti, da noi genitori per primi.
E in questo momento in cui tutti abbiamo fame, chi di cibo, chi di apparenza, mi piacerebbe ci si lasciasse guidare da un’unica fame, quella per la vita.
Grazie davvero Fabio e auguri per tutto.
Maurizio Carvigno