Due donne, due vite e un destino intrecciato. Georges Simenon indaga i recessi dell’animo umano in Marie la strabica.
Il lavoro di riedizione del vasto corpus simenoniano si arricchisce di un ulteriore e pregiatissimo tassello: Marie qui louche, ovvero Marie la strabica, volume proposto da Adelphi nella traduzione di Laura Frausin Guarino.
L’opera, convenzionalmente annoverata tra i “romanzi duri” dell’autore di Liegi, rappresenta un’epitome concreta della sua narrativa, la summa di un pensiero in apparenza lineare, scontato, incasellato in stereotipi cristallizzati dalla critica. Le costanti tematiche del percorso simenoniano affondano in realtà le radici in un terreno comune, solcato da quell’angoscia intima e relazionale che fa di ogni esistenza un vissuto invisibile, nascosto allo sguardo dei più in forza di un vincolo di condivisione impalpabile ma assodato.
Scandagliare l’animo umano è del resto un esercizio di cesello, un lavoro – anzi – da compiersi col bisturi.
Lo scrittore scava, disseziona, assume sulle spalle il peso di mostrare profondità insondate perché vissute come banali. A lui spetta il compito di svelare il celato, togliendo al quotidiano quella patina di naturalità che sfocia in normalizzazione e impedisce il rovello. I cliché di Simenon assumono carattere grottesco se non se ne coglie la funzione. Ogni dettaglio travalica i confini della narrazione e si fa spia di un’oscura condizione esistenziale, ne traccia i confini in modo deciso eppure sfumato, allo scopo di lasciare al lettore un margine di contatto, di immedesimazione possibile.
C’è un fine perturbante in tutta la sua opera, che lo rende scrittore impegnato oltre la tradizionale concezione del termine.
Lungi dalla diffusa e asettica autoprotezione del romanzo d’intrattenimento, il suo lavoro stabilisce un denominatore comune tra l’autore e il pubblico, non rinnegando la fisionomia disobbligata di certa letteratura ma piegandola piuttosto al proprio uso, al fine di mostrare ciò che investe l’uomo senza che questi se ne accorga. È in tal senso che Marie la strabica assume il valore di un libro-emblema e la protagonista, «creatura toccata dalla malasorte», fa dei suoi occhi mal allineati un veicolo di prospettive mutate – quello sguardo non convenzionale sul mondo e sulle cose che illumina ciò che ai più appare nascosto.
La sua è una storia di sottomissione interiorizzata, ma, come spesso accade nei romanzi di Simenon, il confine tra i sentimenti è equivoco sino a sfiorare l’ambivalenza.
Marie è brutta, scialba, rachitica da giovane e sproporzionata da adulta. Ha un’amica bellissima, cinica e arrivista, quella Sylvie che fa impazzire gli uomini per puro narcisismo e desiderio di rivalsa sociale. Marie l’ama e la odia ma soprattutto la scruta, con gli occhi nerissimi e puntuti che mettono a fuoco l’in-visibile, sollevano il velo dei silenzi e rivelano al lettore una realtà di ordinario eppur terribile squallore.

Tutta la sua persona si contrappone, in un gioco di opposizioni impietoso, al fulgore giovanile di Sylvie, al suo corpo pieno, al seno magnifico che afferra «a piene mani» con incomparabile piacere.
Proprio in questo confronto crudele si annida l’indagine simenoniana, giacché il semplice intento – da egli sempre dichiarato – di «capire di più l’uomo» [1] passa necessariamente per le modalità di approccio al mondo, per le vie di conoscenza che l’individuo si costruisce oppure si trova in sorte. Sylvie sperimenta col corpo ma non rifugge il pensiero. La sua determinazione la fa scontrare, più spesso di quanto s’immagini, con i limiti della propria educazione, con il passato da «sguattera» che non riesce a scrollarsi di dosso.
Di lei cogliamo le incertezze, in un discorso indiretto libero che tiene assieme tutta la narrazione consentendo a essa alcune smarginature soltanto in corrispondenza del dialogo stentato con Marie.
Lo sguardo di quest’ultima è una via d’accesso al nostro inconscio, e non è un caso che l’autore dichiari a Francis Lacassin di non amare «l’intelligenza», le previsioni già meditate, preferendo piuttosto un’«operazione psicanalitica» di «entrata» nel personaggio – e dunque in un tipo d’uomo. L’imperscrutabilità di Marie è diretta derivazione del suo sguardo oltre che funzionale al ruolo che le spetta: lei sbircia senza essere guardata, sconquassa e scava senza mai rivelarsi.
È una sensazione di disagio ad accompagnare la sua presenza, e Sylvie ne è preda e complice nonostante la presunta superiorità.
Marie è silenziosa, limita la sua entrata in scena a poche semplici battute, tutte rivolte all’amica impudica che indaga con gli occhi mentre ella si spoglia rimirandosi il seno. Ma la nudità esibita di Sylvie è soprattutto metafora di un’operazione di disvelamento messa in atto da Marie. Il suo strabismo indaga i meandri della mente e rimesta, al pari del tono pacato, nelle torbide acque dei rapporti umani.
Nonostante le umiliazioni e le meschinità gratuite Marie non può fare a meno di perdonare Sylvie, di cercarne il contatto, carpirne il pensiero.
Ma la stessa amica, ormai maturata e mantenuta, amante di un magnate in punto di morte, è a «Marie la strabica» che pensa quando ha bisogno di aiuto. Così il vincolo ambiguo che lega le due assume i tratti di un’unione asfittica, in cui il rapporto tra gli attori in gioco sfuma continuamente senza rovesciarsi mai del tutto, almeno esplicitamente. Marie, segnata sino alla fine dalla rassegnazione, è in tal senso il personaggio che meglio esprime la lezione balzachiana fatta propria da Simenon. Senza che l’autore – e con sé il lettore – possa rendersene conto, la giovane giunge al «limite di se stessa» [2] e mostra all’uomo ciò che accade quando si lasciano i freni dell’educazione, delle convenzioni, della normalizzazione.
Il confine tra chi vince e chi perde è sfumato e sfuggente e ogni individuo, per quanto stabile sia, conserva in sé una dose d’ambiguità latente e a se stesso in-svelata.
«Ammettilo che mi odi!» sussurra Marie a Sylvie mentre, rievocando un antico gioco, le pettina i capelli. È una dichiarazione di compiacimento inspiegabile – una “visione”, perturbante e rivelatoria, di ciò che si annida nell’animo umano e ai più appare soltanto un meccanismo banale.
Georges Simenon
Marie la strabica
Milano, «Biblioteca» Adelphi, 2019
pp. 181
Ginevra Amadio
[1] F. Lacassin, Intervista a Georges Simenon, 1969, ora in F. Lacassin, Conversazioni con Simenon, Torino, Lindau, 2017.
[2] Ibidem.