Luisa Pitocchelli sostiene attività teatrali a scopo rieducativo in qualità di volontaria nelle carceri. Dall’esperienza a Santa Maria Capua Vetere è nato il libro “Diversamente liberi”, edito da Pasquale Gnasso Editore.
L’intervista
Noi abbiamo intervistato Luisa sul CLUB CULTURAMENTE di Clubhouse e vi riportiamo qui la nostra chiacchierata.
Ci parli un po’ del tuo libro?
Il libro è nato dalla necessità di mettere su carta il mio percorso presso la Casa Circondariale Francesco Uccella di Santa Maria Capua Vetere in provincia di Caserta da ottobre 2018 a maggio 2019. Ho voluto raccontare com’è la vita dei detenuti in carcere, ma soprattutto ho voluto dare un focus alle attività teatrali, offrendo uno sguardo su cosa significa portare il teatro nelle carceri e seguire i detenuti in questo percorso, per far capire quanto questa attività possa essere importante per loro per ritrovare un contatto con la propria sensibilità.
L’idea del libro ti è venuta a fine esperienza oppure hai scritto giorno per giorno?
Diciamo che inizialmente quando sono entrata in carcere non avevo in mente di scrivere un libro, però giorno per giorno, quando tornavo a casa dopo le attività, ho sempre scritto tutto ciò che vedevo per capire se quello che stavo facendo stesse avendo degli effetti positivi sui detenuti.
Quindi ho sempre scritto quello che vivevo giorno per giorno e alla fine del progetto mi sono sentita in dovere di trasformare tutte quelle informazioni che avevo in un libro, perché ho capito quanto effettivamente il teatro possa fare la differenza nella vita di queste persone e quanto la rieducazione nelle carceri sia un tema importante e purtroppo ancora oggi non dibattuto abbastanza.
Come è partito il tuo interesse verso questo tipo di attività in carcere?
Io faccio teatro da tantissimo tempo, ma solo recentemente ho avuto la possibilità di portarlo nelle carceri, possibilità che si è presentata in maniera abbastanza sorprendente: lavoro da tanto con una compagnia molto conosciuta sul territorio casertano e napoletano, ovvero il SudAtella, e ci è stato proposto questo progetto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Io ho deciso subito di partecipare attivamente insieme al gruppo perché so quanto il teatro possa fare la differenza, io stessa grazie al teatro sono riuscita a fare uscire allo scoperto tanti aspetti di me e a entrare in contatto con la mia sensibilità. Penso quindi che persone che hanno perso la loro strada possano usufruire del teatro per riuscire a trovare una nuova strada ed entrare in contatto con loro stessi.
Ed è successo? Hai dei feedback di qualcuno di loro che è uscito dal carcere?
La maggior parte dei ragazzi che ho seguito a Santa Maria stanno ancora scontando la loro pena, ma qualcuno di loro è uscito. Alcuni di questi ancora li sento, sono venuti anche alle presentazioni del mio libro e in queste occasioni hanno anche parlato della loro esperienza e di quanto il teatro li abbia aiutati.
Quindi i ragazzi sanno che hai scritto un libro su di loro.
Non tutti purtroppo, perché la realtà dei detenuti e del carcere in generale è molto dinamica. Infatti ci sono stati dei ragazzi che sono stati spostati prima che pubblicassi il libro e quindi non lo sanno. Io ho fatto un lavoro immenso per riuscire a far arrivare l’informazione della pubblicazione a più detenuti possibile, infatti alcuni hanno potuto leggere il libro, ad alcuni addirittura sono riuscita a inviarlo personalmente.
E come si sono sentiti a ritrovarsi nel tuo libro? Ti hanno detto qualcosa a riguardo?
I ragazzi che hanno letto il libro sono rimasti molto colpiti perché non sapevano assolutamente quello che io stavo facendo: non ho detto mai nulla per avere la massima spontaneità da parte loro. Giustamente vedersi poi descritti tra le pagine di un libro e in maniera così intima è stato un qualcosa che ha fatto loro effetto.
All’inizio del libro descrivi brevemente il momento in cui comunichi ai tuoi genitori questa tua scelta di lavorare nelle carceri e come loro si siano mostrati preoccupati. Tu non avevi paura?
Più che paura della realtà detentiva io avevo paura dell’ignoto, cioè il portare il teatro nelle carceri era qualcosa che non avevo mai fatto e non sapevo come mi sarei trovata e se sarei stata all’altezza della situazione. Forse più che paura avevo ansia.
Per quanto riguarda i miei genitori e i miei cari, inizialmente per loro non è stato semplice, infatti si vede anche nell’introduzione del libro. Forse il problema era che non credessero fino in fondo che questo tipo di attività potesse essere davvero utile, quindi inizialmente ho dovuto scontrarmi con alcuni muri, anche perché dire ai tuoi “mamma, papà, vado in carcere!” non è una cosa che senti tutti i giorni. Però da quando ho portato a termine l’attività ed è venuto fuori il libro, i miei genitori sono diventati i miei primi sostenitori. Penso che il libro sia servito anche a questo, a dare una nuova visione alle attività rieducative in carcere a chi magari ha dei pregiudizi. Anche perché il carcere è un agglomerato di persone che sono lì per scontare la loro pena, ma deve essere anche un luogo di rieducazione, quindi bisogna dare loro dei mezzi per riuscire a uscire da lì in maniera positiva. Ho cercato infatti di decostruire l’immagine di detenuto come mostro: il detenuto è una persona che ha commesso degli errori e che attraverso tante attività deve riuscire a trovare la sua strada.
Il carcere è molto rappresentato nei media, tanto che ci hanno ambientato anche serie televisive, per esempio “Orange is the new black” oppure “Prison Break”. Ovviamente senza fare nomi e cognomi e senza dare informazioni private, ci racconti qualcosa dei detenuti che hai incontrato?
Ho avuto modo di confrontarmi con tutte le categorie di detenuti: oltre al reparto femminile, ho seguito il reparto dei reati comuni, cioè quelli di media sicurezza dove non si ha a che fare con reati di tipo associativo camorristico o mafioso, e il reparto di alta sicurezza, quindi con reati di associazione. Quello che ho avuto modo di notare è come ancor di più in chi ha commesso reati associativi il teatro sia stato un mezzo per ritrovare una sensibilità che avevano perso. Non dimenticherò mai una frase, che ho anche inserito nel libro, di un ragazzo che prima di entrare in scena mi disse: “tu sicuramente non mi crederai, ma ho più ansia ora che devo salire sul palco che quando ho una pistola in mano”.
Come è stato l’approccio di questi ragazzi al teatro?
L’approccio è stato diverso in base al gruppo e alla singola persona: spesso si cade nel cliché di pensare che il detenuto sia un prototipo. In realtà i detenuti sono persone, ognuna reagisce e agisce in una maniera differente. Il gruppo di reati comuni sono stati paradossalmente i più difficili da gestire e la loro gestione è stata più complicata. L’alta sicurezza invece aveva un codice di comportamento più strutturato ed è stato più semplice portare a termine le attività, considerando che il teatro presuppone ordine, disciplina, rispetto per i compagni. Chiaramente ci ci sono stati dei casi particolari, specialmente in quelle persone che già fuori dal carcere tendevano a imporsi e comandare, ma penso che questo tipo di attività sia stata un bene per loro.
Quindi c’è bisogno di autorevolezza in certi casi.
Assolutamente sì, ma la cordialità è la prima cosa. Senza la cordialità e la gentilezza in carcere non si può fare niente, perché per poter portare a termine un progetto il detenuto non deve sentirsi giudicato. Io stessa ho dovuto fare un lavoro su di me per lasciarmi alle spalle determinati pregiudizi e vedere i ragazzi come persone divise dai loro reati. Io ero lì per altro, non per giudicare.
Tramite il teatro escono fuori emozioni di ogni genere. Hai assistito a momenti in cui, mentre svolgevate le attività, ci sono stati scatti d’ira o crisi di pianto da parte dei detenuti che entravano nel personaggio?
Ci tengo a citare una parte del libro che riguarda un ragazzo che apparteneva all’alta sicurezza ed era totalmente sconnesso: a livello emotivo era spento, non provava gioia, né tristezza né rabbia. Con lui è stata dura portare avanti l’attività perché ovviamente il teatro presuppone emozioni. Durante lo spettacolo che abbiamo fatto a conclusione delle attività, di fronte a magistrati, guardie, avvocati e altri detenuti, ho visto per la prima volta questo ragazzo emozionato. Era in preda all’ansia all’inizio e arrabbiatissimo alla fine perché aveva sbagliato una battuta. Sono emozioni negative, ma sono emozioni di qualcuno che non ne aveva mai mostrate, e tutto questo attraverso il teatro.
Veronica Bartucca
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