[CulturaMente compie 7 anni! Questo articolo fa parte delle uscite "Le magnifiche 7 (penne)", un omaggio degli ex spacciatori di cultura per festeggiare insieme agli attuali spacciatori questo importante compleanno.]
Che fine ha fatto la fantascienza sintetica, quella dei grandi affreschi galattici compressi in due righe? Dei futuri svelati in un paragrafo? Il cosmo e il tempo in minuscola edizione tascabile? Da decenni ormai la fantascienza ha preso la stessa deriva del fantasy. Ne ha copiati i vizi: la scrittura verbosa, logorroica, le avventure senza fine, l’obbligo del bestseller mattone o della saga presto al cinema in sette film da due ore l’uno. Le virtù le praticano in pochi. Tra queste, il dono della brevità.
La fantascienza è stata per buona parte del secolo scorso, e per gran parte dei suoi capolavori, breve. Era un’esigenza più che una scelta, dettata dai limiti editoriali (se vogliamo, alimentari) delle uscite sulle riviste (come per l’origine della Fondazione asimoviana negli anni Quaranta). Ubbidiva alle necessità della letteratura considerata “bassa”, a cui non poteva essere concesso più spazio per esprimersi e allora doveva concentrare tutte le sue aspirazioni e la potenza nei pochi spazi disponibili.
Per lo scrittore di genere, che all’inizio non poteva aspirare a essere notato dalla critica alta salvo in rari casi, la prospettiva – certo avvilente – di essere destinato al nulla produceva però risultati qualitativi molto alti. Nel vuoto di premi (non mancavano: lo Hugo nei Cinquanta già esisteva, ma aveva il sapore delle premiazioni da fiera locale), l’autore bravo sapeva donarsi al lettore senza secondi fini. Se non il critico, poteva certo conquistare e sbalordire l’appassionato. È quella sincerità intellettuale, o meglio quel lasciarsi andare, che porta a improvvisi sprazzi di genio; la “memoria involontaria” che per Walter Benjamin è il soffio vitale del romanzo, e cioè lo spirito del creativo insufflato inconsciamente nell’impeto della scrittura. Certo, Benjamin usa come esempio Marcel Proust, noi qui pensiamo ad alcune storie di Philip K. Dick e di Isaac Asimov.
Queste madeleine fantascientifiche appaiono come epifanie in scene brevi ma realizzate ad arte. Come l’aprirsi di un varco verso una realtà parallela ne L’uomo nell’alto castello di Dick o l’impero galattico riassunto in un paragrafo nel Ciclo della Fondazione di Asimov. Rientrano nella lista distopie fin da subito riconosciute nella letteratura alta, da 1984 di George Orwell a Fahrenheit 451 di Ray Bradbury.
A questa grandezza fantascientifica corrisponde una grandeur in forma di sintesi. Non è solo la capacità della lingua inglese di essere compatta (o “croccante”), perché le derive del mercato letterario contemporaneo raccontano ben altra storia. È la moda che cambia. La precisione quasi scientifica della sintassi, asciutta come lo scorrere del tempo, chiara e inequivocabile come una pièce teatrale, si perde dagli anni Sessanta, con le lungaggini di Robert Heinlein, per dire. Che il modello sia il fantasy alla J.R.R. Tolkien diventa evidente in opere come il Ciclo di Dune di Frank Herbert, in cui è palese il ruolo che ha giocato il Signore degli anelli.
La deriva del troppo si propaga fino a oggi – pur non essendo, è ovvio, l’unica regola. Esempi contemporanei sono la riscrittura monstre dei Racconti di Canterbury, realizzata da Dan Simmons a partire dall’89, il Ciclo di Hyperion. Le trilogie new weird di Jeff VanderMeer. Le uscite infinite per autori come il duo Daniel Abraham e Ty Franck, noti sotto lo pseudonimo di James S.A. Corey e firme dell’universo The Expanse: nove romanzi in dieci anni. Non che la qualità sia più bassa. Sono tutti libri finiti per merito nel canone della fantascienza (quantomeno i primi volumi di ogni serie). Solo, è diverso.
Sembrano indicare una inversione di tendenza le più recenti uscite di penne asiatiche, in particolare le antologie cinesi, come quella di Hao Jingfang, Pechino Pieghevole. Però, ecco, ormai poca sci-fi sembra salvarsi dalla tentazione del bestseller corposo e a più volumi. Chissà quando sbucherà qualche novello Guido Morselli, magari riconosciuto prima che sia troppo tardi, con una Dissipatio o una Roma senza papa nel cassetto.