In un dibattuto rapporto del 1995 di uno studio degli psicologi sociali David G. Meyers e Ed Diener, emerge che gli americani sembrerebbero essere più felici di qualsiasi altra popolazione presa in considerazione.
Si potrebbe sostenere che una parte significativa del motivo alla base dei risultati è che la parola happiness in inglese rappresenta un concetto molto più debole rispetto ad altre lingue, rappresentando non solo uno stato di totale beatitudine, ma anche un momento di rapido piacere. In ogni caso, la felicità gioca un ruolo importante nel passato e nel presente degli Stati Uniti.
Facciamo una carrellata di opere letterarie statunitensi, di diverse forme e stile e di diverse epoche, per capire bene quanto il concetto di happiness sia alla radice della cultura statunitense.
Le origini: la “Dichiarazione d’Indipendenza” (1776)
Dovremmo probabilmente iniziare con John Locke, filosofo inglese del XVII secolo, che ha definito i diritti universali naturali degli esseri umani come “life, liberty and estate” (vita, libertà e proprietà). Questi concetti erano considerati universali (almeno teoricamente) e si applicavano a tutto il genere umano.
La trinità di Locke è stata presa come ispirazione per la scrittura della famosa Dichiarazione d’Indipendenza americana, un documento del 1776 scritto per la maggior parte da Thomas Jefferson che mirava a proclamare gli Stati Uniti come stati liberi e indipendenti dalla corona inglese. Il clou del saggio, ancora oggi citato e parodiato, è la parte in cui si afferma che tutti gli uomini sono creati uguali e che sono dotati di alcuni diritti inalienabili, come “life, liberty and the pursuit of happiness” (vita, la libertà e la ricerca della felicità). Quest’ultimo elemento, opposto alla “proprietà” proposta da Locke, è una parola chiave non solo nella Dichiarazione, ma nell’insieme del sistema di valori americani ancora oggi.
La ricerca della felicità, afferma la Dichiarazione, deve essere un diritto, come dovrebbero esserlo la vita e la libertà. Tuttavia, nella storia degli Stati Uniti questi diritti apparentemente inalienabili sono stati costantemente negati a determinati gruppi di persone.
Herman Melville, “Benito Cereno” (1855)
Benito Cereno di Herman Melville ci offre un esempio importante dell’ipocrisia degli Stati Uniti sin dai loro primi anni come nazione indipendente. Invece di ambientare la storia nella data della sua pubblicazione o nella data corretta delle esperienze di vita reale del Capitano Delano, da cui Melville ha preso ispirazione, la colloca nel 1799, nel bel mezzo della rivoluzione haitiana, un punto di riferimento importante nella storia dell’America nera.
Per Babo e gli altri schiavi neri, fra i protagonisti della storia di Melville, la rivolta era una questione di felicità, nel senso che per loro la felicità coincideva con la libertà. In un mondo che concepiva le persone nere come animali, la principale preoccupazione di questi era quella di poter vivere liberamente. Nel descrivere la nave di Benito Cereno, Melville usa l’espressione slumbering volcano, cioè vulcano addormentato, citando l’intellettuale nero Frederick Douglass che qualche anno prima aveva sottolineato l’ipocrisia della Dichiarazione che si rivolgeva solo agli uomini bianchi privilegiati.
Lorraine Hansberry, “Un grappolo di sole” (1959)
Se sopravvivere corrispondeva al concetto di felicità nell’era delle rivoluzioni e anche oltre, uno splendido esempio di come questo concetto sia soggetto a cambiamento nel tempo è mostrato nella più famosa commedia di Lorraine Hansberry, “A Raisin in the Sun”. Ambientato negli anni ’50 del Novecento, segue i diversi sogni e ambizioni di ogni membro della famiglia Younger. In una conversazione cruciale tra Walter Lee e sua madre, vediamo quanto sia diversa la loro prospettiva sulla felicità.
Perché suo figlio non può essere felice per quello che ha, si chiede Lena, quando ha dovuto combattere molte più lotte di lui? Quello che Lena non capisce è il peso delle circostanze e delle aspettative della società che fanno pressione su Walter Lee. Non può essere felice di vivere quella vita così com’è perché ciò che conta di più al suo tempo va oltre il semplice concetto di sopravvivenza.
Il denaro, lo status, il lavoro sono le cose che in una società moderna rendono felici le persone.
Henry James, “Ritratto di Signora” (1881)
Anche la questione della felicità alla luce della questione della donna negli Stati Uniti è stata dibattuta, già con la parodistica “Dichiarazione dei Sentimenti” di Cady Stanton. Ad esempio, i personaggi femminili di Henry James, in particolare Isabel Archer di “Ritratto di Signora”, sono l’incarnazione della complessità della femminilità americana nel XX secolo.
La felicità e la sua ricerca è uno dei temi principali all’interno del romanzo, coincidendo, per Isabel, almeno nella prima parte del romanzo, con l’indipendenza. In un famoso passaggio del capitolo 19, Isabel afferma che è il proprio sé che definisce una persona, non i vestiti che si indossano o ciò che si fa.
Se nelle parole di Madame Merle il focus è l’espressione di sé e i problemi che l’espressione di sé provoca, la dichiarazione di Isabel riguarda la libertà dell’individuo, non confinata nell’involucro delle circostanze. Isabel ci crede davvero, sposare un uomo povero è la prova che dà agli altri e a se stessa.
Tuttavia, le circostanze sono cruciali per il romanzo sin dal suo inizio: Isabel si ritrova in uno stato di infelicità (può persino vedere i fantasmi a Gardencourt, presentati a lei come visibili solo a coloro che hanno sofferto), causato principalmente da una circostanza, cioè i soldi ereditati dal signor Touchett. Invece di liberare la sua immaginazione, come voleva Ralph, l’eredità l’ha messa in una gabbia.
Decidendo di non scappare con il suo corteggiatore storico, il signor Goodwood, Isabel non rinuncia alla sua felicità. Sta invece rifiutando l’idea di raggiungere la felicità attraverso un uomo, un principe azzurro. Presentata ai lettori dalla prima pagina in cui compare come indipendente e affezionata alla sua libertà, Isabel sceglie di rimanere fedele al suo carattere complesso.
Alison Bechdel, “Fun Home – Una tragicommedia familiare” (2006)
Con “Un grappolo di sole” e “Ritratto di signora”, appare chiaro che la felicità non è un concetto assoluto, ma si intreccia con la società, le circostanze e le aspettative. Il doloroso tentativo di adattarsi agli standard della società, spesso andando contro il nostro vero io, è magistralmente rappresentato da Alison Bechdel nel suo graphic novel autobiografico, “Fun Home”.
Nel capolavoro di Bechdel, la sua casa di famiglia è impiegata per affrontare questioni complesse come il genere e l’identità. Il tropo della casa come incarnazione degli stati psicologici delle persone residenti all’interno ha il suo apice nel romanzo realistico del XIX secolo, come nella produzioni di Charles Dickens. In “Fun Home”, l’ossessione di Bruce Bechdel, padre della protagonista, per l’architettura e la decorazione è un meccanismo di difesa per nascondere i suoi segreti personali e la sua vera identità sessuale al di fuori dei vincoli eteronormativi della società. Bruce è intrappolato in una vita matrimoniale e lavorativa che non vuole, soprattutto se paragonato alla vita che era solito immaginarsi di vivere in Europa prima di ereditare l’attività di famiglia.
Essendo una proiezione del dilemma interiore di Bruce, la casa che Alison trova tornando a casa dopo aver dichiarato la sua omosessualità e dopo aver scoperto da sua madre che anche suo padre è omosessuale, è diversa, la sua facciata è danneggiata come lo è la maschera di suo padre, poiché appunto la sua omosessualità è stata rivelata proprio prima della visita rivelando la sua vera identità.
L’omosessualità di Bruce è sempre lì, sotto la facciata che vuole irrimediabilmente sostenere. Il suo sforzo è raffigurato nella vignetta in cui sta cercando di fotografare il ritratto di una famiglia perfetta: alcuni fotogrammi dopo entra in scena lui stesso, con l’aiuto di Alison che ora scatta la foto, ma lo starnuto di uno dei figli al momento dello scatto simboleggia che niente è davvero sotto il suo controllo.
La scena è importante anche per le somiglianze tra i due fotografi: sia Alison che Bruce hanno il mignolo alzato mentre scattano la foto, e i loro posti nelle due foto si scambiano, sottolineando le loro somiglianze. Sia per Bruce che per Alison la felicità non può essere disgiunta dalla loro identità sessuale, la differenza sta nel fatto che Bruce non ha avuto il coraggio di esporsi completamente, preferendo indossare una maschera. Alison, al contrario, ha un rapporto più sano con la sua sessualità, desiderosa di esplorarla a fondo.
Grace Paley, “Midrash sulla felicità” (1990)
Ancora diverso il concetto di felicità per Grace Paley. Il Midrash del titolo si riferisce un metodo di studio interpretativo della Bibbia nella tradizione ebraica che prevede la ricerca di risposte indagando a fondo il significato delle parole nel testo. Attraverso questo titolo, Paley cambia l’oggetto dello studio da Dio alla felicità, suggerendo che, fedele alla tradizione americana, ciò che vale la pena perseguire è la felicità, più della religione. Invece della Bibbia, qui il testo oggetto di indagine è come se fosse implicitamente la Dichiarazione di Indipendenza. Faith, la protagonista, sta decostruendo parola per parola cosa intende per felicità, con ogni definizione che si apre ad altri concetti da definire.
Cosa intendeva per felicità, disse, era questo: intendeva avere (o avere avuto) (o continuare ad avere) tutto. Per tutto intendeva prima i bambini, poi una persona cara con cui vivere, preferibilmente un uomo (per «con cui vivere» intendeva a lungo ma non era necessario fosse così). Inoltre, ma non in ordine di preferenza, voleva tre o quattro amiche del cuore a cui raccontare qualsiasi fatto suo personale e con cui discutere poi al livello più profondo e disperato di economia […]
Grace Paley, “Midrash on Happiness”, traduzione italiana di Liana Borghi.
Paley giustappone l’esuberanza di Faith con l’oscurità del mondo, concentrandosi sul conflitto tra la vitalità del suo temperamento e le sofferenze che la circondano. I problemi del mondo non sono lontani dai suoi pensieri, tuttavia non prevalgono mai. Non li nega, semplicemente non si lascia sopraffare.
“A volte passeggiando con le mie amiche, dimentico il mondo” è l’ultima frase di “Midrash on Happiness”, il che implica che la felicità è qualcosa di personale, che può cambiare da un individuo all’altro.
Dalle prime battaglie per la libertà, inevitabilmente intrecciate con la felicità, alle lotte contemporanee contro ogni forma di ingiustizia sociale, passando per il celebre discorso di Barack Obama alla Democratic National Convention del 2004 su “l’audacia della speranza”, gli Stati Uniti si sono confrontati costantemente i problemi e i limiti della ricerca della felicità, su cui è stata fondata la nazione.
Veronica Bartucca