Giovanni Gentile è uno di quegli autori che hanno il coraggio di raccontare, attraverso le emozioni che solo il teatro può trasmettere, la storia del nostro paese, le nostre malefatte, le pagine più nere che troppo spesso dimentichiamo di leggere.
Giovanni si avvicina al mondo della scrittura e dell’arte scenica vincendo a 20 anni e per due anni di seguito, il concorso giornalistico universitario nazionale “Cinemaavvenire”, che gli consente di entrare nella giuria Cinemavvenire-Anicagis della Mostra del Cinema di Venezia.
Negli anni successivi muove i primi passi come regista e sceneggiatore di coreografie.
Studia scrittura teatrale e regia con Pippo Delbono, attraverso laboratori e workshop tenuti dall’artista in tutta Italia, dal 1995 al 1998.
Dal 2011 inizia la sua avventura teatrale con lo spettacolo Io e Miryam che scrive e porta in scena, anche in veste di regista, con Angela Degennaro come protagonista.
Socio fondatore della Compagnia Teatro Prisma di Bari, negli anni seguenti firma e dirige spettacoli quali Le due vergini, Senza Rete – Lettere dal Manicomio, Palmina – Amara terra mia, Chi ha paura di Aldo Moro.
Abbiamo incontrato Giovanni Gentile parlando del suo teatro ma non solo.
Giovanni come definisci il tuo teatro?
Intanto grazie a te e a Culturamente per questo spazio.
In realtà non so cosa sia il mio teatro, non riesco a dare una definizione a ciò che faccio. Ho il desiderio di raccontare delle cose, in qualunque luogo me le facciano raccontare.
Ho scelto la forma della scrittura prima e del teatro successivamente, perché è quello che so fare.
Avessi saputo cantare, avrei sentito la stessa urgenza di raccontare le stesse cose, ma l’avrei fatto in un’altra forma, scrivendo una canzone.
Il mio è un teatro che cerca di togliere gli orpelli, raccontando la storia di questo paese, oggi così sballato e malconcio.
Per certi aspetti è come sbattere in faccia alla gente quello che siamo e quello che siamo stati. Come coraggiosamente ha fatto Palmina Martinelli che nella sua ultima lettera di denuncia: “mamma, e tu che fai? (quando mi insultano, quando mio cognato mi picchia, quando papà mi chiude in casa).”
Palmina chiama in causa il mondo degli adulti, uno per uno. E a queste accuse di correità non puoi rispondere se non cercando di dare loro una eco nazionale, grazie al teatro.
Come scegli i temi da trattare e come ti informi sui singoli argomenti?
Per quanto riguarda la preparazione e la scrittura in effetti c’è un grande lavoro di ricerca e di sintesi.
Per esempio, tornando a Palmina, ho fatto di tutto! Ho cercato di intrufolarmi negli archivi del Tribunale di Bari, ho rotto le scatole ai Carabinieri per farmi accompagnare dal Procuratore a chiedere permessi vari, che ovviamente mi ha negato. Per scrivere Palmina – Amara terra mia, ho davvero rischiato la denuncia.
Per Chi ha paura di Aldo Moro ho passato più di quattro ore con Barbara Balzerani. Ho letto tanto, visionando ore e ore di filmati della Commissione Parlamentare.
Sono tanti, oramai, gli spettacoli che hai portato in scena. A quale ti senti più legato?
Farmi questa domanda è un po’ come chiedermi “vuoi più bene a mamma o a papà?”.
In realtà, per motivi diversi, sono legato a tutti molto profondamente. L’ultimo, Denuncio tutti – Lea Garofalo in cui racconto la commistione tra Ndrangheta, politica e massoneria e il dramma assurdo di Lea Garofalo, è ovviamente per me il figlio appena nato, quello che ha bisogno di più cure, quello a cui penso quando mi sveglio la mattina. E poi la figura di Lea, è una figura così grande, che diventa quasi epica, un esempio di essere umano che mi pongo come obiettivo personale.
Però Palmina – Amara terra mia è lo spettacolo che mi ha cambiato la vita.
Forse per gli incontri fatti, per quello che ho imparato di me stesso e della vita, durante la lavorazione. Ma principalmente per l’incontro con una persona unica come Nicola Magrone, il P.M. che in Tribunale per trentasette anni ha difeso, da solo, contro tutti, la figura minuta ma così enorme di Palmina.
A lui mi lega una profonda amicizia e stima che spero sia reciproca.
Non posso dimenticare il grande affetto che mi lega a Mina Martinelli, la sorella di Palmina, che con le sue denunce e con il suo coraggio, ha fatto sì che le indagini venissero riaperte a distanza di 31 anni.
Parliamo del bellissimo ‘Chi ha paura di Aldo Moro’. Come è nata l’idea di raccontare uno dei più grandi misteri della nostra storia?
Intanto grazie mille per il “bellissimo”.
Porgo a te e ai tuoi lettori una contro-domanda. Siamo sicuri che sia ancora un mistero? È fondamentale saper se a premere il grilletto per l’esecuzione del Presidente Moro sia stato Moretti, come dicono i processi, o Maccari o ancora Gallinari? O, come qualcuno vaneggia da qualche mese, un killer della Ndrangheta?
Sarà forse la vocazione forcaiola italica che sposta il focus su questi particolari, tralasciando completamente ciò che è successo in Italia negli anni ‘70, anni in cui una generazione si è sparata addosso.
Non dimentichiamoci che la guerra civile in Italia, scoppia con la strage di Piazza Fontana e, dopo 50 anni, finalmente è stato acclarato che quella bomba arrivava dai servizi segreti, quindi dal Ministero degli Interni.
Il caso Moro, per quello che Moro rappresentava in quegli anni, per come è avvenuto il rapimento e per come si sono dipanati quei 55 giorni, oscura dieci anni di storia del nostro paese.
Storia che dovrebbe cominciare ad essere insegnata nelle scuole.
La mia idea scrivendo Chi ha paura di Aldo Moro, era quella di riportare la morte del Presidente Moro in una storia tutta italiana. Anni che stiamo ancora pagando con il dissesto delle casse dello Stato, con il dissesto ecologico per la cementificazione selvaggia del territorio.
Moro è una storia italiana, con implicazioni di governi stranieri, certo, ma assolutamente nata e conclusa in Italia, in una guerra selvaggia tra cittadini italiani.
Come reagisce il pubblico ai tuoi spettacoli?
Sicuramente non rimane impassibile. Si indigna, si commuove, discute.
Quello che mi piace veramente tanto è che ogni volta, dopo lo spettacolo, che sia in un teatro o in una scuola, rimaniamo anche delle ore a parlare con gli spettatori o con i ragazzi. Le persone sentono il bisogno di dire la loro, di raccontarci un loro ricordo, un loro sentimento, di buttare fuori l’ansia accumulata durante gli spettacoli.
Il dopo spettacolo diventa quasi una catarsi.
A volte qualcuno ci manda a quel paese sonoramente, a volte usciamo scortati dai carabinieri, una volta un sedicente ex giudice in platea si è alzato e ci ha minacciato di morte e poi è sparito.
Insomma, capita un po’ di tutto.
Le rare volte in cui non è successo niente ci siamo preoccupati.
Con te lavora la bravissima Barbara Grilli. Ci parli di lei?
Io e Barbara ci siamo incontrati artisticamente tre anni fa “per colpa” di uno spettacolo che si intitolava Le due vergini. L’avevo già vista in scena diverse volte e mi ero fatto di lei l’idea di un’attrice molto talentuosa e molto preparata, ma che sprecasse tutto questo talento.
Durante le prove de Le due vergini Barbara era così brava che ha costretto anche me a diventare migliore, sia come autore che come regista, per starle al passo.
Da allora le nostre strade si sono incrociate e abbiamo sempre lavorato gomito a gomito per quasi 365 giorni all’anno.
Abbiamo fondato una nostra compagnia, prodotto sei spettacoli, fatto quasi 200 repliche in tutta Italia, affrontando qualunque tipo di difficoltà.
Però siamo ancora insieme artisticamente e con ancora tantissimi progetti per il futuro.
Barbara è una delle poche attrici che io abbia mai visto recitare capace di tenere un palco da sola per oltre un’ora, senza quei silenzi riempiti da luci e da urla, come impone un certo tipo di teatro contemporaneo.
Giovanni oltre che autore teatrale sei anche un poeta (hai vinto ne 2013 il premio Alda Merini). Qual è il tuo rapporto con la poesia e come pensi possa avere ancora spazio oggi?
La poesia in Italia è morta, come tante altre cose.
Le case editrici pubblicano poche cose e spesso di pessimo livello, roba trita e ritrita in mille salse senza neanche spingerla più di tanto. I premi non sono più vetrine per mettersi in mostra ma monumenti all’ego di casalinghe o di impiegati in pensione che rispetto e apprezzo molto, ma che non sono, ovviamente, Montale o Pavese.
La poesia, com’è oggi, non ha da dire più niente, tranne che per rarissime eccezioni come Maurizio Cucchi, Patrizia Valdughi e pochi altri, così pochi che si contano sulla dita di una mano sola.
Purtroppo, la poesia non è più il mio mondo perché quando sei innamorato e la tua donna ti delude più volte, l’unica cosa da fare e girarsi di spalle e andarsene, senza rancore.
A novembre tornerai a Roma con ‘Palmina, Amara terra mia’, e noi di Culturamente ci saremo. Ci puoi parlare di questo spettacolo?
Parlare di questo spettacolo per me è molto difficile, perché nella mia vita la scena si è intrecciata con la vita vera, i protagonisti ancora viventi di questa storia sono diventati amici, padri putativi, sorelle. Però ci provo.
Questo spettacolo è il racconto di un territorio barese potentemente diviso, nel 1981, in classi sociali rigide e non modificabili, in cui chi ha la sfortuna di nascere in una famiglia non benestante ha come unica possibilità per tirare a campare quella di trafficare in ambienti borderline.
E Palmina nasce proprio in una di queste famiglie ai margini, relegata alla solitudine e all’emarginazione sociale, in una casa frequentata da individui loschi che spacciano e mettono in piedi un giro di prostituzione a cui Palmina è destinata.
È il 1981, l’anno in cui proprio a pochi chilometri da Fasano, dove abita Palmina, viene fondata la Sacra Corona Unita, con i suoi codici e le sue regole.
L’11 novembre del 1981 il fratello di Palmina, Antonio, rientrando in casa, trova la sorella in bagno che brucia viva.
Palmina, amara terra mia non è solo la storia di Palmina Martinelli ma è anche la storia di un tribunale, quello di Bari, in cui un magistrato, Nicola Magrone, si trova da solo a combattere in aula e nei corridoi contro un sistema giudiziario maschilista e insensibile.
Palmina è una vittima del malaffare, ma anche del sistema giudiziario italiano, imperfetto per i poveri e per le donne ma protettivo per le caste privilegiate.
Maurizio Carvigno