
Nato a Leeds, John William Inchbold (1830-1888) comincia a perseguire, fin dalla fanciullezza, il suo intento pittorico che perfeziona nella capitale londinese; in loco si specializza nello studio della litografia a colori.
Nel 1847 l’artista sceglie la via dell’accademismo e fa la sua entrée nella Royal Accademy, configurandosi quale esponente del paesaggismo.
La sua arte si connota di un espressivismo che colpisce lo sguardo di aderenti alla setta dei Preraffaelliti, tra cui il filosofo del manifesto John Ruskin che considera le sue opere un monito incline alla verità della natura. Costui gli riconosce una fede verso i dettami di un “naturalismo” e “verismo” che intridono le tele di una franchezza espressiva ineguagliabile.
Di contro Rossetti considera il lavoro di Inchbold anonimo, privo di slancio, esule da tensione.
Inchbold, una disgrazia e una persona noiosa cit. Rossetti
Ruskin prosegue il suo favore nei confronti dell’artista, il suo lavoro viene ammirato dalla Royal Academy.
La sua aura quasi onirica, dai tratti delicati e il suo credo nei confronti della natura lo esemplificano quale interprete perfetto del sentire preraffaellita. Lo stile è narrativo e si fonde con l’impegno di descrivere nei minimi particolari una scena rispondente al vero. Si snocciola come un racconto racchiuso nel contingente di una tela, ma che prosegue ben al di là di questa. Come un eterno presente storico, dove vige rispetto e riserbo per un passato, per una memoria che precede e preesiste. Non un’etica dell’autoreferenzialità, ma il pensiero di un continuum in cui l’umanità è un passaggio.
Inchbold, dietro l’ispirazione dei versi di William Wordsworth, nucleo del poema: “La cerbiatta bianca di Rylstone”, dà sfogo alla sua delicata espressività in un omonimo quadro del 1855. L’eco bucolico, arcadico rivive nella meraviglia di una composizione semplice, genuina.
Il senso del passare del tempo si stigmatizza in un attimo eterno e eternabile.
La descrizione puntuale fatta dal poeta, in cui sono enumerati gli spostamenti del cerbiatto settimanalmente sulle colline fino all’Abbazia di Bolton, prende vita in questo quadro di genere omettendo la presenza umana (narrata invece dai versi).
Inchbold raffigura l’animale nella solitudine e nel silenzio delle rovine campestri, posto al centro dell’apertura dei resti di una struttura dal sapore antico, dai colori variegati. La preziosità di ciò che è stato e per questo ha il potere, l’autorevolezza di essere sempre.
Muschi, licheni, piante rampicanti si inerpicano tortuose su queste pietre sapienti: il silenzio imponente del passato. La fede alla natura e alla riproduzione “verista” della stessa costituisce il monito dell’opera e sensibilizza anche lo spettatore che rimane colpito e convinto da questa autenticità; come se facesse parte per un momento di questa armonia che coniuga contingenza e ricordo. Il potere di ciò che è semplice narrazione, descrizione fedele di ciò che l’animo sente in consonanza con ciò che lo sguardo scannerizza. La rifrazione della luce, la segmentazione luminosa; le crepe, le fessure che adornano gli archi di pietra. Un simposio che si unisce con il “rumore” dello scorrere del fiume Wharfe sullo sfondo.
La solitudine serena, lieve di un luogo arcano, un’Abbazia che custodisce sapienza e che ora, attraverso le sue rovine, rimane eco di un romanticismo oramai alle porte, e vive in armonia con la natura e la sua spontaneità, rigogliosa.
Il biancore della cerbiatta è tale da darle le sembianze di un animale quasi mitologico.
Tutta l’atmosfera in cui è immerso ha qualcosa di religioso e profano al medesimo tempo.
L’epica di ciò che si rivela semplice e per questo grandioso.
Costanza Marana
Foto: JW Inchbold [Public domain]
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