“La sfida di Giuditta”: a Roma non solo Caravaggio e Artemisia Gentileschi

La sfida di giuditta mostra roma 2021

A Palazzo Barberini un’esposizione sull’eroina biblica Giuditta in rapporto alla cultura e alla raffigurazione della donna tra Cinquecento e Seicento. Fino al 27 marzo 2022

Giuditta è una giovane vedova che, grazie all’aiuto di Dio, riesce a sedurre e decapitare Oloferne: il generale del re degli assiri, Nabucodonosor. Questo secondo un testo riconosciuto come ispirato da Dio e inserito all’interno della Bibbia da cattolici e ortodossi, mentre protestanti ed ebrei – non giudicandolo tale – lo escludono. La storicità della donna, a causa di una serie d’inesattezze storiografiche e geografiche, non è ritenuta attendibile: questo non ha impedito alla sua figura di divenire non solo sinonimo di fede ed eroismo ma anche di seduzione. E, come ogni simbolo, soggetto d’arte. Specialmente pittorica.

Il contesto storico e religioso della Giuditta di Caravaggio

Sebbene accettato dalla Chiesa Cattolica e da quella Ortodossa, dunque annoverato tra i Deuterocanonici, il “Libro di Giuditta” non godette di particolare risalto per secoli. Fu solo dal 1592, grazie all’edizione della Bibbia scaturita dal Concilio di Trento e basata sulla cosiddetta “Vulgata Sisto-Clementina”, che la sua protagonista acquisì un ulteriore significato a cui, probabilmente, si dovrà il suo crescente successo: l’antiluteranesimo. I protestanti, come si è detto, consideravano il “Libro di Giuditta” apocrifo: quale migliore risposta a chi mette in discussione l’autorità di Roma se non un personaggio che, forte della sua fede nel vero Dio, riesce a decapitare il nemico? In questo scenario nasce una delle tante opere capaci di rivoluzionare il mondo dell’Arte firmata da Michelangelo Merisi da Caravaggio.

La riscoperta di un capolavoro

La mostra “Caravaggio e Artemisia: la sfida di Giuditta” ha come sottotitolo “Violenza e seduzione nella pittura tra Cinquecento e Seicento”. Questo perché, di fatto, è con il Merisi che la vicenda di Giuditta e Oloferne viene rappresentata non nelle sue conseguenze – la testa tagliata ed esibita – ma eternando il passaggio più cruento. Esistevano già alcuni manufatti che lo mostravano, una incisione attribuita a Giovan Battista Scultori tratta da Giulio Romano e un olio di Pierfrancesco Foschi, ma mai nulla di ugualmente potente, grandioso, impressionante. Tanto che il committente del quadro, il banchiere Ottavio Costa, ne fu così geloso da stabilirne per testamento l’inalienabilità e impedire a chiunque di ricopiarlo. Questo contribuì a far perdere le tracce del capolavoro di Caravaggio: venne, infatti, riscoperto solo nel 1951 dal restauratore Pico Cellini presso il suo proprietario – Vincenzo Coppi – e correttamente attribuito grazie a Roberto Longhi. Che, per l’occasione, chiese e ottenne la proroga della prima importante mostra dedicata a Caravaggio e ai suoi seguaci: la celeberrima esposizione tenutasi a Milano negli spazi del Palazzo Reale. Ciononostante, però, il numero delle sue variazioni si sussegue per secoli: quella di Artemisia Gentileschi compresa.

Artemisia Gentileschi e la sua più famosa Giuditta

Se appare molto probabile, stando alle più recenti ipotesi cronologiche, che Caravaggio abbia avuto modo di assistere all’esecuzione della famiglia Cenci e di tradurre figurativamente quanto appreso, è ancora più certo che Artemisia Gentileschi abbia trasferito nella propria interpretazione di “Giuditta decapita Oloferne” diversi elementi autobiografici: degna erede del padre, il pittore Orazio Gentileschi, fu violentata da Agostino Tassi – suo maestro di prospettiva – dovendosi per questo sottoporre a un umiliante processo. Lo stupratore fu condannato all’esilio da Roma per cinque anni, che il Tassi scontò per pochissimo tornando nell’Urbe qualche tempo dopo, mentre per Artemisia Gentileschi si organizzò un repentino matrimonio di facciata con il collega Pierantonio Stiattesi. Nella sua tela la lezione appresa da Caravaggio si fa ancora più realistica: le lenzuola sono inzuppate di sangue e la donna, a differenza di quanto riportato nel testo biblico, è attivamente aiutata dalla sua serva. Forse un riferimento a quel che la pittrice avrebbe voluto facesse Tuzia, inquilina affittuaria dei Gentileschi. Che, invece, quel giorno la lasciò da sola con il Tassi e durante il processo si schierò dalla parte dell’uomo denunciando i presunti costumi un po’ troppo liberi della giovane.

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Artemisia Gentileschi (Roma, 1593 – Napoli?, post 1654) – “Giuditta decapita Oloferne” (1612 circa). Olio su tela, cm 159×126 Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte.

“La sfida di Giuditta” e le sue sezioni

Le interpretazioni di “Giuditta decapita Oloferne” da parte di Caravaggio e della Gentileschi sono l’asse intorno a cui ruota tutta l’esposizione curata da Maria Cristina Terzaghi: trentuno opere distribuite in quattro sezioni elegantemente allestite. La prima, intitolata “Giuditta al bivio tra maniera e natura”, tra gli altri esibisce il già citato Pierfrancesco Foschi, il tardomanierista dal sapore fiammingo “Giuditta consegna la testa di Oloferne alla fantesca” di Lavinia Fontana e un dettagliatissimo Tintoretto e bottega. Il percorso prosegue con “Caravaggio e i suoi primi interpreti” dove, oltre all’ovvia Giuditta posseduta da Ottavio Costa, trovano spazio creazioni di Giuseppe Vermiglio, Filippo Vitale, Trophime Bigot, Bartolomeo Mendozzi, l’immancabile Valentin de Boulogne e la controversa “Giuditta decapita Oloferne” attribuita a Louis Finson e riconducibile a una fantomatica seconda versione dello stesso soggetto sempre del Caravaggio. La sezione “Artemisia Gentileschi e il teatro di Giuditta” approfondisce la vicenda personale e professionale della pittrice romana, innanzitutto mettendola a confronto con Orazio. Nella mostra di Palazzo Barberini vengono, infatti, accostate due tele con identico soggetto: “Giuditta e la fantesca con la testa di Oloferne”. Una è firmata dal padre, conservata presso il The National Museum of Art, Architecture and Design di Oslo ed eseguita tra il 1608 e il 1609; l’altra terminata dalla figlia intorno al 1615 e usualmente esposta a Firenze, nella Galleria Palatina di Palazzo Pitti. In questo modo il visitatore può ammirare l’originale e la sua variazione, confrontando le differenze e valutando il risultato. Ma ci sono anche altri nomi che si sono cimentati con lo stesso tema con alterna fortuna: Johann Liss, la cui Giuditta getta uno sguardo carico d’intesa verso lo spettatore, il solito Giovanni Baglione che nonostante la rivalità con Caravaggio non riesce a sottrarsi al fascino della sua invenzione d’accostare i volti di serva e padrona, un Mattia Preti carico di elementi patetici e uno spettacolare Guido Cagnacci la cui eroina è di un’umanità commovente.

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Guido Cagnacci (Sant’Arcangelo di Romagna, 1601 – Wien, 1663) – “Giuditta consegna la testa di Oloferne alla fantesca” (1645 circa). Olio su tela, cm 103,5 x 136,5 Bologna, Pinacoteca Nazionale.

Un finale che punta alla testa

La sezione conclusiva, “Giuditta e David, Giuditta e Salomè”, gioca a stimolare chi osserva: l’elemento in comune tra le opere è la testa mozzata. “Giuditta con la testa di Oloferne” è presente tramite la fortunatissima tela di Cristofano Allori e quella di Valentin de Boulogne. Quest’ultimo, però, dipinge la bella vedova con un volto identico a quello utilizzato per un suo “David con la testa di Golia”: addirittura i due eroi biblici potrebbero dirsi fratello e sorella. Un altro David, stavolta di Girolamo Buratti, ha l’atteggiamento di chi si aspetta un complimento per la sua nobile impresa. Infine due donne, illuminate da una torcia, accelerano il passo: una porta con sé una testa. Se non fosse per il piatto in cui questa giace e, soprattutto, per quel semplice crocifisso in basso a sinistra potremmo scambiarla per Giuditta. Si tratta, invece, di una donna ugualmente famosa ma per i motivi opposti: ecco, infatti, “Salomè e la serva con la testa del Battista” del senese Francesco Rustici. Definito da dall’abate Luigi Lanzi un “caravaggesco gentile”, quasi la mostra voglia concludersi con uno scherzo intellettuale.

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Allestimento mostra – Foto di Alberto Novelli.

Cristian Pandolfino

Foto in evidenza: allestimento mostra “Caravaggio e Artemisia: la sfida di Giuditta. Violenza e seduzione nella pittura tra Cinquecento e Seicento”. Foto di Alberto Novelli.

Cristian Pandolfino
Nato a Messina, si laurea con lode in Filosofia e decide di trasferirsi a Roma per frequentare un master in scrittura creativa e pubblicitaria presso l’Istituto Europeo di Design. Copywriter da più di un decennio, ha lavorato per numerosi clienti nazionali e internazionali senza mai perdere di vista le sue autentiche passioni: le religioni, la mitologia classica, il cinema, il teatro, la musica, l’arte, la fotografia, la letteratura e, ovviamente, la scrittura. Cura un suo blog - Il Neomedio - e collabora con varie realtà on-line.

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