Il dramma Copenaghen impreziosisce il cartellone per la Stagione di Prosa del Teatro Pubblico Pugliese in scena al Petruzzelli di Bari.
Copenaghen opera in due atti dello scrittore e drammaturgo britannico Michael Frayn è rivelata al pubblico italiano per la prima volta nel 1999. Il trio dei brillanti attori italiani che da allora porta in scena la pièce: Giuliana Lojodice (La dolce vita, La vita è bella), Massimo Popolizio (Il divo, La grande bellezza, Sono tornato) e Umberto Orsini(Ludwig, La caduta degli dei). L’infaticabile interprete è promotore, tramite l’omonima Compagnia Orsini, di grandi Classici e inediti teatrali. Con produzioni proprie e altrui, Orsini intende difatti trasmettere l’immenso bagaglio di esperienza professionale e culturale accumulato in 60 anni di carriera.
Copenaghen: un copione dalla dialettica tagliente, ironica, feroce e immediata, sorprende e illumina le coscienze degli spettatori e degli stessi protagonisti.
L’acre e febbrile dialogo tra Il fisico NIels Bohr (Orsini) e il suo allievo Werner K. Heisenberg (Popolizio), tesse l’intreccio del lavoro teatrale. Ad arbitrare la disputa e la diaspora del nucleo umano in scena, Margrethe (Lojodice) moglie di Bohr. Il sipario è aperto. Riaffiorano dunque le tre figure soffocate dal nero funereo delle lavagne cosparse dai segni bianchi di ignote formule matematiche. Un grande merito va riconosciuto certamente alla meticolosa, misurata e sapiente regia di Mauro Avogadro. I tre interpreti liberano sul palco il proprio carisma e il proprio estro, in una recitazione che caratterizza magnificamente i tre diversi registri umani nella loro complessa diversità e mutevolezza.
Minacciosi, i quadri di ardesia tempestati di codici criptici ai più, sorvegliano, imprigionandoli per tutta la durata del dramma, i tre personaggi.
Circoscritte, isolate e alienate le tre prede nel sistema Storia si attaccano, si difendono, si commiserano a vicenda per quasi due ore. Mentre cercano di ricostruire il contesto storico, privato e professionale, in cui muovono come particelle di uno stesso atomo, attraendosi e respingendosi. Infatti senza capire la reale natura del legame che li accomuna, i tre attori in scena fisicamente e retoricamente, si respingono e si distruggono. È arduo dunque distinguere la legge di causa ed effetto che ha innescato il processo di immedesimazione e alterazione fra le tre componenti in scena. Le tre voci oltremodo si esprimono alternando a vicenda: I tre corpi, le tre menti, i tre cuori.
Germania e Danimarca 1941= Heisenberg e Bohr 1941
“Satana lotta con Dio e il loro campo di battaglia è il cuore degli uomini”
Se Dostoevskij pone un confronto umano fra morale ed etica nel contesto religioso, Frayn in Copenaghen compie un’analoga riflessione in un preciso contesto storico. Il regime nazista assottiglia e disintegra la stima e la fiducia, instaurando quel clima di sospetto tipico dei regimi totalitari. Le tre anime un tempo complici, ora sono separate anche se ugualmente in luoghi angusti e restrittivi. Mentre Bohr difatti è costretto al confino a Copenaghen (era per metà ebreo), protetto dal governo inglese, Heisenberg in Germania guida il progetto della bomba atomica nazista. In seguito al famoso incontro fra i due a Copenaghen nel settembre ’41, attorno cui verte l’opera, anche Bohr prenderà parte al “Progetto Manhattan” per la creazione dell’atomica americana. Entrambi vittime del segreto imposto dall’intelligence che li “protegge”.
Memorie da un passato vissuto e mai indagato.
Heinsenberg al cospetto del maestro, incerto e riluttante, ammette il ruolo di prestigio assunto presso i tedeschi che li oppone. Agitazione e sconforto infatti attanagliano i tre che confusi e adirati muovono in maniera sconnessa sulle scalinate dell’ipotetico “Iperuranio” . Adibito ad aula di laboratorio, qui le tre anime non più entità terrestri, in un tempo imprecisato e mai riuscendo a trovar pace, provano a rintracciare le circostanze e le soluzioni del loro celebre incontro.
D’altronde in Copenaghen le tre presenze evanescenti agitano il palcoscenico adattato ad arena.
I tre attori si affrontano nell’ideale e improvvisato campo di battaglia avvalorando in tal modo le proprie tesi scientifiche e private. Le luci nel proscenio inoltre filtrano, vibrando tra i corpi e le parole affilate, contribuendo allo straniamento che coinvolge anche il pubblico. Per la confusione dei protagonisti, lo spettatore assetato di verità, vive in tensione, curioso di scoprire le conclusioni della diatriba.
Nell’epilogo di Copenaghen le tormentate anime si abbandonano alla relatività, all’incomprensione dei fenomeni che compongono le fitte trame dell’esistenza.
I tre personaggi appaiono infine rasserenati della propria impotenza oltre ogni sapere. Una partita aperta, inesauribile che coinvolge ogni giorno in tutto il mondo, menti eccelse nella folle corsa al progresso.
Le battute finali del copione meritano la citazione testuale, per la chiarezza e la risoluta lucidità, nel formulare una possibile chiave di lettura dell’opera.
Margrethe: «E quando tutti i nostri occhi saranno chiusi, quando anche i fantasmi saranno scomparsi, che cosa rimarrà del nostro beneamato mondo? Del nostro devastato, disonorato e beneamato mondo?».
Bohr: «Quando non si prenderanno più decisioni, grandi o piccole che siano. Quando non vi sarà più indeterminazione, perché non vi sarà più conoscenza».Heisenberg: «[…]I nostri figli e i figli dei nostri figli. Salvati, forse, da quell’unico breve istante a Copenaghen. Da un qualche evento che non sarà mai esattamente individuato o definito. Da quel nucleo finale di indeterminazione che sta nel cuore delle cose».