A dare inizio alle danze, è stata una compagnia lombarda, la Fenice dei Rifiuti, che ha portato in scena l’atto unico Sacrificio del Fieno, scritto, diretto ed interpretato da Michela Giudici e Alessandro Veronese: testo già vincitore della I edizione del concorso di drammaturgia contemporanea L’Artigogolo 2015.
A cavallo tra il 1944 e il 1945, durante gli anni bui della guerra, nella campagna lombarda, dove i nazisti erano più spietati che mai e la Repubblica Sociale continuava ad illudere una parte degli italiani e a far soffrire la restante, la giovane Elena ospita e si innamora di Cesare, meglio conosciuto con il nome di battaglia partigiano Airone, più grande di lei e rimasto ferito. Una storia tormentata che vede la giovane costretta a cedersi alle truppe naziste, pur di proteggere il suo amato e farlo scappare. Un tormento che non si fermerà con il nazismo. Una storia che vedrà coinvolti personaggi comici e tragici: storia dove non ci sono vincitori, ma solo vinti.
Già dalle prime scene, lo spettacolo risulta travolgente. Attraverso uno schema che gestisce varie scene distaccate, divise secondo una serie di flashback e ritorni all’azione principale, il duo gestisce una trama dalla non facile esecuzione. Il ritmo coinvolge il pubblico, il quale segue con passione e partecipa attivamente alla vicenda. Seguendo un principio che ricorda molto Tradimenti di Harold Pinter, la vicenda potrebbe (come qualcuno ha notato) anche essere vista dalla fine al principio: il messaggio arriverebbe in ogni caso. La curiosità deriva dal fatto che la trama è ispirata ad una canzone di Davide Van De Sfroos, intitolata Ciamel Amuur.
I due attori si destreggiano in svariate parti, raramente sono in solitudine, mostrando una perfetta complicità e fiducia l’uno nell’altro. Il passaggio dal comico al drammatico, non solo da un personaggio all’altro, avviene con la semplicità di un nero al cinema: cosa non così scontata a teatro. Gestire in due 11 personaggi non è cosa da poco, soprattutto se solo uno di questi è una donna; eppure una canzone che permette in scena un cambio d’abito, una luce che tramuta rendono il pubblico cosciente di un tempo che passa, con annesse persone che ne fanno in parte, in una realtà che muta, senza cambiare mai troppo la scenografia, caratterizzata da sole quattro balle di fieno (21 nella versione originale). Alessandro Veronese mostra perfettamente la sua esperienza, ma un applauso a parte merita Michela Giudici. Questa si prodiga ad interpretare, oltre ad un personaggio femminile giovane che muta, a causa degli avvenimenti, nel corso dell’opera, personaggi maschili dal carattere più variegato: dal contadino ignorante al soldato, passando per il fraticello dalla voce stridula.
Altro grande merito va dato al multi-linguismo. Italiano, tedesco, dialetto comasco (per l’occasione un po’ italianizzato) e un tocco di latino si abbracciano in un testo dove frati, contadini, uomini di cultura e tedeschi condividono un inferno in terra, in un periodo dove effettivamente si sentivano le lingue e le frasi più varie, spesso senza capire il significato.
Uno spettacolo da 5 stelle, dove il teatro non è solo un’esibizione ma una voglia di raccontare e mesotrare, la trama è ben comprensibile a tutti e gli attori sono meritevoli. Da vedere e rivedere e, riguardo il Doit Festival, sicuramente da tenere sott’occhio.
Francesco Fario
Francesco Fario