“Vieni, andiamo via, in prigione”
(Re Lear, atto 5, sc. 3)
Non è facile fare il capo! Vorrei vedere voi!
Son tutti bravi a criticare i Potenti – i Re, le Regine o i Capi di Stato – ma la verità cruda è che il vertice della piramide è la peggiore delle posizioni. Se solo andassimo a rileggere le fiabe! O se solo ci ripassassimo Spiderman:
“Da un grande potere derivano grandi responsabilità”.
Ma il popolo è spesso invidioso, presuntuoso ed ignorante (“ignorante”: colui che “ignora”). Persino Andreotti diceva: “Il potere logora chi non ce l’ha”. Geniale considerazione.
Ciò non toglie che la Storia non abbia realmente visto pavoneggiarsi sul trono più di un monarca cattivello, assassino, dittatore o ladro. Per carità! Ma qui non facciamo della Storia, ma una sorta di esistenzialismo shakespeariano. E, da un punto di vista dell’esperienza umana, essere il vertice di qualcosa non dev’essere assolutamente semplice, secondo me. Un capo si prende i vaffanculi di tutti. Sa che nell’accontentare Tizio dispiacerà a Caio o viceversa. Un capo è il vertice di “qualcosa” e non di qualcuno. È il vertice di un gruppo (piccolo o grande che sia) e il suo ruolo gli impone di curare il bene di questo gruppo senza volto e dai mille volti, fatto di tanti e diversi individui che desiderano tutti cose diverse.
Questo principio è fondamentale se si vuoi capire da cosa comincia la tragedia del “Re Lear” di Shakespeare.
Come ha spiegato mirabilmente il Maestro Meryl Streep in un’intervista a proposito del suo super-bossy personaggio ne “Il diavolo veste Prada”, un capo è impopolare. Per forza. E – cosa ancor più interessante – è destinato a venir sempre in qualche modo deluso. Egli possiede per natura qualità uguali a nessuno. Ha il coraggio di comandare. Si prende la responsabilità di comandare.
Ancora una considerazione, tanto perché – si dice in giro! – io sono un tipo che pensa troppo, uno a cui piace immaginare: non mi risulta che il bambino-Lear abbia mai chiesto di venire al mondo per far parte di una famiglia reale. Se è vero che al trono si accede per successione, quel bambino sul trono ci si è ritrovato, condannato a diventare Re. Un Re è solo uomo con una corona sulla testa. E il bambino-Lear, con tutte le insicurezze e le tenere fragilità di un piccolo, non solo non ha mai chiesto di nascere reale, ma non ha potuto nemmeno scegliere. Magari avrebbe desiderato di fare il medico, o l’insegnante o il fornaio. Magari gli sarebbe piaciuto aprire un ristorante o diventare pilota. È il più prigioniero fra gli esseri umani. Libertà zero. Personalmente non so immaginare un destino più funesto. Ma questo, forse, è un problema mio.
Insomma, come si sopravvive a tanto stress? Ci si riesce diventando il più vanesio e narcisista fra gli uomini, uno la cui generosità solare assume le macroscopiche dimensioni di un dispotico bisogno di elargire. E guai se il dono viene rifiutato! Cioè, se proprio devo fare il capo, tanto vale che io mi ami all’inverosimile e abbia di me stesso una considerazione sproporzionatissima che rasenti la mitomania. Soprattutto bisogna che gli altri mi adorino. Perché se gli altri non mi adorano, come farò io a sostenere la gravità della mia stessa forza? Se gli altri non mi adorano, come farò a sopportare il peso della mia maestà? Così il bambino-Lear diventa King Lear, ovvero un dominatore al quale non si può dire di no, un pallone gonfiato, un uomo accecato da se stesso. Uno destinato alla più penosa disillusione. Alla disperazione.
La vita non la freghi. La vita ti condanna a fare il Re, e poi la vita ti condanna a scoprire che il re è davvero il più umile fra i servitori. La vita ti dà lo scettro e la potenza, poi ti manda due figlie false e ingrate che ti prendono per i fondelli. Così lo scettro te lo puoi anche dare in testa.
Però la vita ti dà anche una terza figlia, una simile a te, non del tutto uguale, ma come te viscerale e sincera. Ferocemente sincera. Sincera come un lampo nella notte, la notte dei tuoi occhi ciechi. L’unica che ti tratti non da Re, ma da padre, che è ciò che realmente sei. Questa figlia non ti ama come si ama un re. Non ti venera. Ti ama come si ama un padre. E basta. Dovrebbe bastare.
La vicenda di Lear la conosciamo tutti. Non c’è bisogno che ve la racconti. Vero?
Quella figlia che ha avuto il coraggio di gridarti in faccia la dolorosa Verità, quella figlia che tu hai ripudiato e scacciato via dal tuo angusto regno di carta (la famosa “mappa” nella prima scena dell’atto primo) è la stessa che alla fine corre in tuo aiuto e va ogni oltre limite. La stessa pronta a morire per te. E infatti muore. È così che funziona il cuore, il “cardio”. È così che funziona Cordelia. L’amore sincero fa fare queste cose. Gli esseri umani sinceri si sacrificano gli uni per gli altri.
A Lear –prigioniero, uomo, padre – che tiene fra le braccia il proprio “cardio” ucciso, piano piano manca il fiato. E poi, finalmente, gli scoppia il cuore in petto. Il Re è libero di morire.
Articolo e foto di Enrico Petronio – Willy, l’esploratore shakespeariano