Moni Ovadia presenta al Teatro Romano di Ostia Antica uno spettacolo che intreccia i miti classici alla sensibilità moderna del poeta greco Jannis Ritsos.
L’epica omerica è caratterizzata da eroi sentimentalmente “muti”, dominati dalle regole del coraggio e del potere. E se l’età dei valori militari viene smorzata dai sentimenti dei lirici arcaici – la cosa più bella è quella che si ama secondo Saffo – gli eroi classici dei tragici si appellano ancora agli antichi valori e non vengono mai ritratti nella loro intimità: è sempre una questione più “morale” che “fisica”. Quel crudo realismo, fatto di pance che ingrassano e di membra che cedono non fa parte del mondo glorioso dell’epica.
Se c’è una cosa che la poesia contemporanea può aggiungere alla grandiosità degli eroi è la caducità umana. È questo il merito di poeti come Jannis Ritsos. Moni Ovadia, accompagnato da una suggestiva performance musicale, ne regala una lettura intensa, affiancata da quella del testo originale di matrice omerica e tragica, con La Cantata della Grecità.
Quale cornice migliore del teatro di Ostia Antica per raccontare la mitologia?
Così, Agamennone ed Elena diventano umanamente difettosi, mentre in vita erano stati l’uno un grande guerriero, l’altra una bellezza quasi divina. E Crisotemi, la figlia sconosciuta di Agamennone, trova spazio per la sua storia di “personaggio secondario”, ricordando quell’amore tipicamente ellenistico rivolto alle “piccole cose”.
Cosa resta, quindi, dell’arrogante Agamennone, ucciso dalla moglie dopo l’assedio di Troia per aver sacrificato la figlia in vista della missione? Nelle parole di Ritsos il guerriero ritrova una compagna anziana, e quasi non vuole guardarla. Vuole dormire da solo, non vuole essere osservato nella sua vecchiezza. Anche Elena, il cui fascino disumano era stato il pretesto per far scoppiare la celebre guerra, racconta il degrado dell’invecchiamento: le ancelle la deridono, il matrimonio è molto noioso, le imprese eroiche molto lontane.
[dt_quote type=”pullquote” layout=”left” font_size=”big” animation=”none” size=”1″]Mio marito tornava in un bagno di sudore,
si gettava sul cibo schioccando le labbra, e insieme rimuginando
antiche glorie uggiose e rancori sopiti. Io osservavo
i bottoni del suo gilè sul punto di staccarsi – era ingrassato molto.
Una grande macchia livida gli balenava sotto il mento.
Allora mi afferravo il mento, continuando a mangiare distrattamente,
avvertendo nella mano i movimenti della mascella
come fosse staccata dalla testa e la reggessi nuda in mano.
Forse perciò sono ingrassata anch’io.[/dt_quote]
È l‘ordinario a irrompere nell’eroismo di accese battaglie e di ire funeste: la noia esistenziale affloscia i protagonisti di queste storie incredibili.
Degna di nota è la menzione a Crisotemi proprio per la descrizione della sua vita lontana dai riflettori: la sua esistenza inapparente annovera come unico gesto coraggioso quello di aver portato da mangiare alla famosissima sorella Elettra, una volta che era stata messa in punizione:
[dt_quote type=”pullquote” layout=”left” font_size=”big” animation=”none” size=”1″]Cosí sono trascorsi gli anni (come sono passati? – Non me ne sono accorta), e io
sempre in margine agli eventi – sono veramente io che ho vissuto, senza vivere,
tante e tante vite, compresa la mia vita?[/dt_quote]
Moni Ovadia rende quest’ultima lettura quasi un monito di umiltà verso una società in cui viene ostentata qualunque cosa senza saper fare nulla. Anche gli eroi ingrassano, invecchiano e muoiono: la smania di perfezione del mito greco si adatta bene a un mondo dove l’apparenza è tutto e dove quelli come Crisotemi, gli inapparenti, non esistono. Almeno finché qualcuno, un Ritsos o un Ovadia qualsiasi, non trova la voglia di raccontare la loro storia “ai margini”.
Alessia Pizzi