Sarajevo è una città che piange, un dolore che percuote l’anima e la strazia
Eravamo troppo piccoli per ricordare. Sarajevo, ridotta ad un ammasso di macerie fumanti, parlava di dolore. Sarajevo è diventata il simbolo dell’assurdità della guerra. Come ci ha raccontato Alessandro Veronese, nel suo bellissimo spettacolo Ti si moj zivot della Compagnia Fenice dei Rifiuti in scena il 10 e l’11 aprile 2018 all’Ar.maTeatro per il DOIT Festival, la guerra è assurda.
Quel rigore non segnato
30 giugno 1990. L’Italia ha accolto il mondo con i suoi Mondiali di Calcio. Una partita storica si giocava quel giorno: Jugoslavia-Argentina. Firenze, con il suo Stadio Artemio Franchi, è stata testimone del fatto. Siamo ai quarti di finale. Si giocano i rigori. Faruk Hadžibegic, capitano della squadra, ha tirato un rigore. Agitato, il pallone è per lui un simbolo. Sente una responsabilità enorme.
Il rigore fallisce, la Jugoslavia ha perso, venne eliminata e la sua sconfitta diventa il simbolo dello sgretolamento di quel paese.
Il numero otto
Con la delicatezza e la bravura di un attore come lui, Alessandro Veronese parte da questa vicenda per raccontare la storia della Guerra in Jugoslavia e dell’assedio di Sarajevo. L’assedio di Sarajevo è l’episodio più conosciuto della guerra in Bosnia. C’è un numero che torna, puntuale come il destino: il numero otto, che, messo steso, è un “numero bellissimo perché infinito“. Otto sono i mondiali al quale la Jugoslavia ha partecipato, otto sono gli anni di fidanzamento di Boško ed Admira. Il racconto della guerra è andato avanti attraverso storie vere.
Romeo e Giulietta di Sarajevo
Romeo e Giulietta di Sarajevo. Così sono stati chiamati Boško Brkić e Admira Ismic. Così è stato intitolato un documentario che ha narrato la loro storia. Boško Brkić, un giovane ragazzo serbo, ha visto un giorno una ragazza bellissima, seduta ad un caffè posto davanti al Lion Cemetery di Sarajevo, luogo che accoglierà i loro corpi. Lei è Admira Ismic, ragazza musulmana. Otto anni di fidanzamento, la loro storia è diventata un simbolo. Boško andò a vivere con i genitori di Admira nel quartiere musulmano della città. Consci che la loro Bosnia era diventato un luogo dell’orrore, hanno deciso di fuggire, ma prima volevano raggiungere Grbavica, per salutare i genitori di lui.
Un ponte, un fiume, un giorno e un anno. Le lancette dell’orologio si sono fermati per entrambi sul Ponte Vrbanja, struttura che attraversa il fiume Miljacka. Sullo stesso fiume, nel 1914, il 28 giugno Gavrilo Princip uccise l’imperatore Francesco Ferdinando, dando inizio alla Prima Guerra Mondiale. 19 maggio 1993, Boško ed Admira stavano fuggendo verso la libertà.
Boško è stato ucciso da una prima raffica di colpi. Admira, ferita, è rimasta accanto al suo uomo. Prima di essere uccisa, gli ha sussurrato “ti si moj zivot” (“tu sei la mia vita”). I loro corpi sono rimasti su quel ponte otto lunghi giorni (sempre il numero otto) prima di essere rimossi. Solo nel 1996, con la fine dell’assedio di Sarajevo, saranno seppelliti. In quei 8 giorni Mark H. Milstein scattò una foto dei loro corpi che rimase nella storia. Un corpo e un’anima nell’assedio di Sarajevo, di cui questa foto è la testimonianza più forte.

Un ponte che li lega
Stesso ponte, stesso fiume. Le sue acque sono rosse di sangue. Il 5 aprile 1992 ci fu una grande marcia per la pace a Sarajevo con circa 100.000 persone. Sul quel ponte c’erano anche anche Suada Dilberović, studentessa di medicina e Olga Sučić. Dall’Hotel Holiday Inn, sede del Partito Democratico Serbo, i manifestanti sono stati attaccati. Suada e Olga hanno sacrificato la loro vita per la pace. Il Ponte Vrbanja oggi si chiama Ponte Suada e Olga.
Un violoncello che celebra la memoria
Il racconto di Alessandro ha introdotto la figura di Vedran Smailović, violoncellista. Il protagonista della sua storia è un pezzo musicale famosissimo, il cosiddetto Adagio di Tommaso Albinoni. Il musicologo Remo Giazotto affermò di aver trovato resta dello spartito tra le macerie della Biblioteca di Stato di Dresda dopo la Seconda Guerra Mondiale. Solo a seguito della morte di Giazotto nel 1998 si capì che era una sua composizione e non di Tommaso Albinoni. Praticamente disse una “bugia”, il cui motivo rimarrà per sempre nella sua tomba.
Smailović, con il suo violoncello, ha suonato questo brano meraviglioso e struggente nelle rovine della Biblioteca Nazionale di Sarajevo in diverse ore per ventidue lunghissimi giorni. Si tratta dello stesso numero di civili uccisi in un attentato mentre erano in fila per prendere il pane.
Il violoncello, dal suono caldo e lamentoso, fece sì che queste persone non divennero solo numeri.

Gli occhi di una bambina
Tanti bambini testimoni, che con i loro piccoli occhi hanno visto il diavolo in persona. Zlata Filipovic raccontò le vicende della guerra attraverso il suo diario. Il suo diario lo aveva chiamato Mimmy. Egli è stato il testimone involontario di una bambina di 12 anni diventata adulta nel giro di pochissimo tempo. Sopravvissuta al conflitto, oggi vive a Dublino e spero vivamente che abbia vissuto o che stia vivendo quell’infanzia che il mondo le ha tolto. L’assedio di Sarajevo è finito il 29 febbraio 1996. Zlata ha visto la luce in fondo al tunnel.
Alla fine dello spettacolo, meraviglioso, pregnante (Alessandro Veronese è un narratore e attore perfetto), quella sera, il 10 aprile 2018, seduti sulle nostre sedie tutti noi ci siamo chiesti: “E se Faruk avesse segnato quel rigore?“.
C’è bisogno di pace nel mondo. Le vicende di Sarajevo si rivivono oggi in Siria ed in tanti luoghi del mondo.
Al grido di Zlata: “Pace, ora!!” vorrei finire questo mio articolo con un video storico: l’esecuzione del Requiem di Mozart nel 1994 nella distrutta Biblioteca Nazionale di Sarajevo.
Marco Rossi
(Foto di copertina tratta dalla pagina Facebook del DOIT Festival)