Ogni fine anno, si sa, accademie e scuole di perfezionamento fanno saggi e spettacoli.
Il motivo è semplice e banale: non sono mostrare il percorso che hanno scelto; ma soprattutto per far vedere il talento e l’impegno di chi ne ha fatto parte. Molte volte, però, varie realtà uniscono le forze. Ciò che ne esce sono degli Spettacoli, degni della maiuscola. Un caso di questi è Il gioco dell’amore e del caso, in scena al Teatro India il 16-17-18 giugno.
Tratto dal testo omonimo di Pierre Marivaux, lo spettacolo ha visto in scena gli allievi della Scuola di Teatro e Perfezionamento Professionale del Teatro di Roma, diretti da Lorenzo Lavia e con l’aiuto regia di Silvia Quondam.
Un servo narratore (Antonio Bannò) ci conduce nella storia d’amore di Silvia (Francesca Ziggiotti) e Dorante (Alessandro Minati), promessi sposi che non si conoscono.
Ad entrambi viene l’idea di sostuirsi ai propri servitori, rispettivamete Lisetta e Arlecchino (Sylvia Milton e Francesco Benevenuto).
Entrambi i ragazzi pensano di innamorarsi di un servo, per cui sono molto titubanti; mentre i due servi si trovano a dover affrontare la medesima situazione, ma all’inverso. Nasce così una commedia degli equivoci, a cui però partecipano solo loro. I parenti di Silvia, infatti, cioè il padre Orgone (Edoardo Coen) e il fratello Mario (Simone Borrelli) sanno già tutto, avvertiti da una lettera.
Spettacolo lungo, ma ben fatto.
La prima cosa che si nota è la gestione del ritmo. E’ calzante, coinvolgente. Non solo per la regia, ma anche per il modo in cui gli attori riescono a tenerla in scena.
Preparati, a loro agio, si destreggiano in questa commedia settecentesca con passione e divertimento. Un plauso particolare, a mio avviso, a tre attori: Sylvia Milton, per la sua parte, piccola ma capace di trascinare; Simone Borrelli, per la sua caratterizzazione e gestione della voce (per niente facile) e, in primis, per Antonio Bannò, per la sua mimica facciale e la sua capacità istrionica.
Una delle particolarità di questo spettacolo è, però, nelle musiche e nei costumi.
Entrambi infatti vengono dalle “fucine” per eccellenza di entrambi i mondi. Le prime, infatti, sono prodotti dall’Accademia Nazionale di Santa Cecilia; i secondi dall’Accademia di Costume e Moda.
Le musiche ci portano in quel salotto francese del XVIII secolo, con archi e composizioni degne di quell’atmosfera di Marivaux.
I costumi, invece, meritano una manzione a parte.
Con la loro somiglianza (non uguaglianza, attenzione) ci mostrano proprio quel gioco che vuole Marivaux: giocare con le parti, per fingere di apparire qualcosa. Servi, padroni: non c’è distinzione. E’ facile quindi cadere nel tranello che qualcuno possa essere qualcun’altro.
In conclusione, lo spettacolo merita tranquillamente 4 stelle su 5. La mancata è dovuta a qualche movimento di spalle di troppo e qualche capello che copre i i visi, ma non è un problema.
Una performance che ci mostra che, non solo ” l’unione fa la forza”; ma anche che i talenti giovani, in Italia, esistono e sono capaci. Se continueranno tutti per la loro strada, da pubblico, ci aspettano belle novità da vedere e sentire, in tutto il campo artistico.
Francesco Fario