Due partite: un coinvolgente racconto a quattro voci sulle donne

Dalla pièce teatrale di Cristina Comencini, per la regia di Paola Rota, all’Ambra Jovinelli va in scena “Due Partite”, un coinvolgente racconto a quattro voci sulle donne, tra desideri di maternità, sogni di rivalsa, speranze mai sopite e disillusioni ferocemente attuali.

Sono quattro donne, quattro amiche che si ritrovano ogni giovedì per giocare a carte in un salotto. 
Sono diversissime tra loro: Gabriella (Giulia Bevilacqua) insoddisfatta e scontenta per aver dovuto lasciare la musica dopo essersi sposata, mentre suo marito continua a suonare e a viaggiare per il mondo; Claudia (Paola Minaccioni), madre apparentemente felice e appagata di tre bambini; Sofia (Caterina Guzzanti), arrabbiata e amareggiata, amante di un uomo sposato; Beatrice (Giulia Michelini), incinta del primo figlio, ingenua, felice, che non sa cosa aspettarsi mentre si aspetta. Quattro donne diversissime che pure sono amiche, che pure si confrontano, che pure si rispettano, sebbene non si lascino scappare qualche frecciatina occasionale.
Siamo negli anni Sessanta e nessuna di loro lavora. Sono mogli e sono madri di quattro bambine che giocano a fare le signore nella stanza accanto. La frustrazione per aver messo da parte un sogno per sposarsi, l’incapacità di accettare un tradimento, fingendo che vada tutto bene, la rabbia e la consapevolezza di stare con il proprio marito solo perché c’è di mezzo una figlia e di cercare altrove quell’amore e quella passione che non c’è mai stata, sono i fili che muovono le esistenza di Sofia, di Gabriella, di Claudia. A fare da contraltare è Beatrice, speranzosa, che certe cose nemmeno le capisce, che certi discorsi le suonano strani e tristi, lei che suo marito l’ha conosciuto da amici, parlando di libri. E una poesia di Rainer Maria Rilke, che lui le scrive la sera stessa del loro primo incontro, sembra suggellare definitivamente un rapporto sincero, così diverso da quel surrogato dell’amore che muove i rapporti delle sue amiche. E le belle parole di Rilke, che l’hanno fatta innamorare di suo marito, Beatrice le vorrebbe leggere alle sue amiche così arrabbiate e disilluse ma non ci riesce: arrivano prima le doglie, dolorose e inaspettate. E così viene a chiudersi il primo atto.
Quarantacinque anni dopo, le figlie di queste donne – che significativamente hanno il volto delle stesse attrici che interpretavano nel primo atto le madri – si ritrovano per partecipare a un funerale. E’ morta la madre di una di loro, si è suicidata. Queste donne di oggi sono diverse dalle loro mamme: lavorano tutte e questa è la prima – e unica – differenza. Sono sicuramente più affermate, più sicure. Ma non meno stanche, meno tristi. Perché ricordano tutte, tutte loro, quelle sofferenze, rabbie, disillusioni che avevano caratterizzato la vita di quattro donne, tanti anni prima. Le hanno vissute sulla loro pelle: Rossana, la figlia di Sofia, non può fare a meno di ricordare che sua madre era sempre “incazzata”. E che le cene, a casa sua, erano penose, consumate nel silenzio.
Rossana è diventata medico, ha sposato un medico, un uomo che sembra non accorgersi della sua femminilità e le cui pulsazioni sembrano prendere vita solo in una casa in riva al mare, dove lei cucina e lava i piatti. Cecilia è la figlia di Claudia, avvocato single che vuole disperatamente un figlio ma non ha trovato nessuno, per cui decide di tentare con l’inseminazione artificiale; Sara è la figlia di Gabriella: diversamente dalla madre, è diventata una pianista di successo, gira il mondo, è sempre agitata e non sopporta le pressanti premure del suo compagno. Giulia, invece, ha un fidanzato con cui non convive e che non vuole nemmeno vedere le sue cose in giro per casa quando lei va da lui.
Attraverso i ricordi, le confessioni, le confidenze che queste quattro amiche condividono in un momento di totale sofferenza, veniamo a conoscere, indirettamente, cosa ne è stato delle loro mamme. E un po’ è magone, un po’ è sorriso.

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Due partite si snoda in un arco temporale ben preciso: dagli anni Sessanta agli anni duemila. 
E’ cambiato veramente qualcosa in tutto questo tempo? Apparentemente sì. Le donne di ora lavorano, decidono di avere figli anche senza avere un uomo nelle loro vite, decidono di essere stronze, si snervano se qualcuno le tratta troppo bene o troppo poco bene. Cambierà tutto per non cambiare nulla, scriveva Giuseppe Tommasi di Lampedusa nel Gattopardo. E mai come in Due partite tutto questo viene sorprendentemente alla luce: siamo sempre noi, sempre le stesse. Più sicure senz’altro, più indipendenti di sicuro. Ma la fragilità, la solitudine che uccide, quel senso di perfezione che ci viene richiesto, quello di essere mogli, madri, donne di successo, amanti, che porta gli altri a non perdonarci mai nulla, non riesce a venire mai meno. Pure, non perdiamo mai la voglia di ridere, di metterci in gioco, di ritentare. Non riusciamo a imparare dai nostri errori, dagli errori delle nostre madri. Così, follemente, ci lanciamo sempre addosso a quel muro dove tante volte abbiamo sbattuto la testa. Per poi rialzarci, ridendo, piangendo, imprecando, massaggiandoci quel bernoccolo inevitabile, senza che tutto questo possa fermare quello che siamo, quello che saremo, e quello che nessuno potrà mai afferrare di noi donne. Quell’essenza primordiale, quella metamorfosi continua, di un tutto che diventa niente e del niente che diventa tutto, che sfugge a qualsiasi legge razionale. 
E’ una magnifica pièce, Due partite, e la bravura delle attrici (una su tutte la straordinaria performance di Caterina Guzzanti nella parte di Sofia/Rossella) contribuisce alla resa di un testo e di una storia drammaticamente attuale, struggentemente comica ed emozionante. 
Mi sono rivista in Giulia, nei suoi conflitti con la mamma, nel non capire l’attesa di una donna che ormai ha solo una figlia a cui pensare, nelle torte preparate per lei, nel suo vestito più bello indossato per l’occasione, perché vedersi è come domenica. Ivano Fossati cantava la Costruzione di un amore. Si può costruire un amore? Si può vivere quarant’anni accanto ad una persona, senza che questa si accorga del senso di smarrimento che come un serpente striscia nel cuore e lo avvelena, fino ad uccidere? Giulia se lo chiede, smarrita, sgomenta. E nella apparente mancanza di risposte, una risposta, forse, la trova in quel biglietto che suo padre scrisse a sua madre, quel giorno di tanti anni fa, quando si conobbero, la poesia di Rainer Maria Rilke che ora ci viene letta, tra un sussurro e un singhiozzo, nel silenzio che si fa attesa, e poi dolore. 
Un giorno esisterà la fanciulla e la donna,
il cui nome non significherà più soltanto un contrapposto al maschile,
ma qualcosa per sé, qualcosa per cui non si penserà a completamento e confine,
ma solo a vita reale: l’umanità femminile.
Questo progresso trasformerà l’esperienza dell’amore,
che ora è piena d’errore, la muterà dal fondo,
la riplasmerà in una relazione da essere umano a essere umano,
non più da maschio a femmina.
E questo più umano amore somiglierà
a quello che noi faticosamente prepariamo,
all’amore che in questo consiste,
che due solitudini si custodiscano, delimitino e salutino a vicenda.
Chiara Amati

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