Era il 1751 quando Carlo Goldoni portò in scena “La bottega del caffè”.
Una commedia dolcemente potente in cui Goldoni descrive lo spirito umano e i caratteri dei suoi tempi in modo tale da trasformarli in quelle ‘maschere’ che gli diedero tanta fortuna. All’interno della storia troviamo personaggi come l’astuto commerciante Ridolfo, il pettegolo Don Marzio, la ‘facile’ Lisaura dai sentimenti autentici, il biscazziere Pandolfo e altri. Per capire la grandezza dell’autore veneziano, basti pensare a una cosa: sembrano o no i personaggi tipici di una serie tv?
Questa forza e questo tocco, che riescono a rendere spesso la storia un racconto contemporaneo, hanno permesso alla commedia di avere una lunga serie di riadattamenti. Tra questi c’è Das Kaffeehaus di Renier Werner Fassbinder del 1969, che risultò un enorme successo. Proprio questo rifacimento del ribelle autore tedesco è stato eseguito dalla Compagnia del Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia, diretta da Veronica Cruciani, al Teatro Vascello di Roma dal 23 al 28 gennaio.
In una contemporaneità non meglio definita, si muovono i personaggi creati dalla penna di Goldoni.
Dentro quello stesso caffè, stilisticamente Art Nouveau, la vicenda dell’autore veneziano si muove in un’atmosfera mista tra il leggero e il forte. La morale è diversa rispetto ai giorni originali: l’Illuminismo non c’è più e il cinismo ne fa da padrone. Anche i ruoli sono gli stessi, ma cambiano i metodi e le modalità. CIò che cambia non è solo la trama ma, soprattutto, il messaggio finale.
Guardando l’opera di Veronica Cruciani la prima cosa che salta all’occhio è la tecnica.
In primis la scenografia, divisa in due. Sul davanti i due interni. Alla destra del pubblico, la bisca, spesso scura o dalle luci tenebranti. Nella parte restante, il caffè di Ridolfo. Spaccata da tre aperture, due piccole ai lati e una più grande centrale, una carta da parati stile liberty si prende il centro e diventa anche tappeto di scena: niente colori eccessivi, se non un leggiadro tema in bianco e nero. In fondo, l’esterno, con un fondale di un celeste cangiante: palese allusione alla visione lagunare che si può avere in un ritrovo veneziano.
Si passa poi all’uso delle luci e della musica. Così attente ai personaggi, così fedeli alle intenzioni che cercano di far risaltare. Tinteggiando di rosso, verde e oscurità i vari momenti forti, lasciando in neutro il corso degli eventi, la regista ci fa capire la traiettoria tracciata da Fassbinder: descrivere quindi un mondo dove l’indifferenza, l’egoismo e l’assenza di rispetto sono prevalenti e padroni. La musica, invece, prende per mano il pubblico e la storia dai tempi di Goldoni, con una melodia simile a minuetto settecentesco, fino a giungere ai nostri giorni con componimenti sempre più elettronici e incalzanti.
Gran capitolo, ma non ultimo per importanza, sono gli attori.
La Compagnia è attenta a tutto. Anche fuori scena, gli attori partecipano mostrando sguardi e leggeri movimenti d’inquietudine, irriverenza e rabbia. Gli uomini sembrano risaltare di più nella scena, ma solo all’inizio. Le donne sembrano essere solo marginali, con l’arrivo di Placida-Maria Grazia Plos le cose cambiano.
Arriva qui il cambiamento di Vittoria Cruciani, che così descrive il nostro tempo. Ci mostra la nostra contemporaneità: il finto potere maschile su quello femminile, atto solo finché le donne non si riprendono giustizia e verità che a loro spetta. Si comportano da finti uomini e da oggetti sessuali sapendo benissimo ciò che accadrà. La negazione della vecchiaia, il prezzo di ogni cosa e ogni persona, nonché il desiderio di sentirsi parte di un mondo che comunque non ci accetterà mai sono parte integrante della messinscena.
Difficile, invece, dare un giudizio sull’atmosfera dissoluta.
Stando a varie visioni cinematografiche e ad alcune produzioni artistiche, sembra sia giusto concedere al nostro tempo un condimento dal gusto ‘debauché’. È parte integrante della nostra società ed è categorico, se si vuole inserire il testo in un contesto contemporaneo, dargli anche questo ‘tocco’. Giustificato il finale: lo sciacallesco avventarsi sull’ipocrisia svelata (e non a quella che continua a celarsi dietro una ‘maschera’) rispetto al calunnioso pettegolezzo settecentesco, purtroppo, è una realtà di fatto dei nostri giorni.Ci sono però qui dei lati negativi: tecnici e fuori dal discorso ‘morale’. Un esempio viene dall’eccessivo uso delle danze. Distraggono troppo e rallentano quel ritmo che lo spettacolo era riuscito a dare. Inutile completamente, invece, la canzone di Vittoria: non ha una motivazione e non ha un senso all’interno della storia.
Lo spettacolo però in generale piace.
Ha gusto, ritmo e capacità attoriali. Il messaggio arriva e non è quello di Goldoni, ma quello dell’originale Das Kaffeehaus di Fassbinder. Non risulta il classico rifacimento masturbativo, ma una fedele riproduzione aggiornata di un autore ‘inquieto’ e rivoluzionario.
4 stelle su 5 aggiudicate come minimo.
Francesco Fario