Un’atmosfera offuscata circonda la sala. Nebbiosa e polverosa, come il passaggio di una tempesta.
Poi il buio. Due figure iniziamo un ritmico, tachicardico e ripetitivo dialogo. Alla fine, delle luci abbaglianti, ci fanno vedere un uomo che scatta foto e una donna in varie pose.
Ci raccontano così, a poco a poco, la storia del fotografo, il cui nome d’arte è “Pigmalione”, e della modella Alcesti. Lui non ha niente in testa, se non la ricerca.
Pigmalione vuole a tutti costi la Fotografia Perfetta, immagine giunta in un momento di disperazione e che gli dà l’unica forza di vita. Immagine che è tormento, con cui parla e sente la voce. Alcesti potrebbe permettergli di farla uscire.
Lei invece vuole inizialmente diventare solo celebre. Il pensiero però di rimanere immortale nella foto perfetta di un maestro le fa sopportare tutto.
Pigmalione è offensivo, ossessionato dalla forma, dalla sensazione. Scava nell’animo della ragazza, come uno scultore scava il marmo, senza preoccuparsi di farle o meno male. Un tomento che porterà entrambi ad una tremenda conclusione.
Lo spettacolo è degno rappresentante di ciò che vuole raccontare.
Ci sono gli attori. C’è Francesca Accardi, nella sua figura astratta di tormento, che si dipinge di rosso e deride, come ogni ossessione fa. C’è Lucia Bianchi, nel ruolo di Alcesti, con la sua forte ansia rispettosa e sensuale paura desiderosa. C’è Alessandro Lussiana, nel ruolo del fotografo, che si distrugge e si alimenta del fuoco della sua ossessione: unico attore a non abbandonare mai la scena.
C’è la tecnica. Le luci di Mario Boninfante sono veramente belle. Dalla fredda intermittente che ci descrive gli scatti fotografici, alla soffusa che mostra Pigmalione che ripete, seduto in posizione fetale, le parole del suo tormento.
Non c’è l’idea però.
Lo spettacolo vuole rivedere miti che sono nell’Olimpo da secoli. Cercare di spolverarli, dargli nuova luce è una ricerca…vana.
Quello che ne risulta è, purtroppo, quello che lo spettacolo racconta: cercare invano una perfezione. Una ricerca che distrugge e il cui inesistente risultato fa male, anche a se stessi. La ricerca c’è stata, gli elementi più che validi, ma non risulta niente se non “il pallido riflesso di una storia già raccontata“.
Francesco Fario