L’amore ai tempi del telefono a gettoni

telefono a gettoni

Come si corteggiava una ragazza qualche decennio fa quando non c’erano ancora i cellulari? Come era il  mondo quando esistevano solo i telefoni fissi o, al massimo, a gettoni? Fra ironia e nostalgia lo scopriremo.

C’era una volta, tanto tempo fa, un posto dove per poter telefonare esistevano solo due possibilità: o utilizzare l’apparecchio di casa o quello pubblico.
Succedeva, allora, che ad una festa, dopo cinque ore di ammiccamenti e maldestri tentativi di approccio, si riusciva finalmente a conquistare quella che si riteneva la ragazza della vita.

Dopo una serie di amenità varie ci si scambiava il fatidico numero di telefono, quello di casa e, solo allora, cominciava il secondo tempo di un film che era una via di mezzo fra uno dei tanti Fantozzi e una pellicola strappalacrime.

Il giorno dopo la festa il nostro quindicenne dell’epoca, dopo aver atteso invano che la mamma terminasse la telefonata alla nonna, il papà quella all’amico per commentare i risultati di calcio e la sorella quella al fidanzatino di turno, poteva brandire l’agognato telefono.
Di solito l’apparecchio si trovava in salotto, troneggiante su un tavolino sbilenco con affianco l’immancabile rubrica ridotta ai minimi termini e la penna che puntualmente non scriveva.
Poteva, però, trovarsi anche  all’ingresso o corridoio, vicino alla porta del bagno o a un’altra stanza.

Se il filo lo consentiva, dopo aver composto il numero, ci si chiudeva dentro una stanza per avere un po’ di intimità.
Il bello era quando ci si chiudeva in bagno e dopo un minuto o due, qualcuno gridava con voce cavernicola, giustificata da un bisogno fisiologico impellente: «Usciamo fuori da quel bagno che me la sto facendo sotto?»
E allora la poesia della telefonata scemava prima dell’abbattimento della porta.
Luogo della telefonata a parte, l’iter prevedeva, dopo la faticosa conquista dell’apparecchio una seconda fondamentale tappa: la codificazione del numero.
Solo dopo aver tradotto il geroglifico scritto su un foglietto volante, sperando di averlo riportato correttamente, iniziava la vera avventura.
Esistevano sostanzialmente tre possibilità.

La prima era la più rapida ma anche la più tragica.

Dopo aver atteso febbrilmente che qualcuno dall’altra parte del filo rispondesse, averlo educatamente salutato e chiesto se ci fosse la “nostra” lei, una voce oltremodo scocciata sentenziava: ha sbagliato numero.

Ogni certezza crollava, la possibilità di rincontrare la ragazza della festa era identica a quella di diventare presidente degli Stati Uniti.
Fine di ogni speranza e tutto per una cifra errata, per un numero scritto nella semioscurità.

Seconda possibilità, quella più temuta: il discrimine fra il coraggio e la paura, il valico fra il paradiso e l’inferno.

Il numero era esatto ma dall’altro capo del telefono a rispondere era la voce di un novello Fred Flintstone, il padre della nostra fiamma.
Dopo che impacciati, con un filo di voce, chiedevamo se ci fosse la nostra lei, il bruto serafico affermava: «chi la vuole?»

E lì o si diventava uomini o si rimaneva per sempre dei ragazzini brufolosi e sfigati.
Il problema era dover dire in un lasso di tempo che non superasse le due ore, il nostro nome e il motivo per cui cercavamo la preziosa figlia dell’orco. Non era raro il caso che si attaccasse, fingendo un’improbabile caduta della linea, ma se si riusciva a dire tutto d’un fiato nome, cognome e codice fiscale non era comunque detto che l’energumeno dall’altra parte, magari interrotto durante “Novantesimo minuto”, ci passasse la donna della nostra vita.

Poteva, infatti, metter fine ai nostri sogni con la semplice frase «è fuori.» Allora umilmente si ringraziava, ci si scusava e dopo si apriva la finestra per lanciarsi nel vuoto, salvo ricordarsi di abitare al piano terra.

Esisteva, tuttavia, una scappatoia.

Per evitare l’impatto telefonico con il custode della virginea ragazza incontrata per caso a una festa dove neanche si voleva andare, si ricorreva all’aiuto di una seconda persona, necessariamente di sesso femminile.
In genere una sorella o un’amica, il tutto dietro lauto compenso da stabilire in base a tabelle stilate prima di stipulare il sordido patto.
Il brutale capofamiglia, sentendo una voce di ragazza, si sarebbe tranquillizzato, chiamato la figlia e “serafico” avrebbe esclamato:
«Ci sta ‘na certa al telefono, ma famo presto perché me devono chiamare fra poco.»

Dopo questo la sorella o amica di turno avrebbe detto alla “nostra” che qualcuno voleva parlare con lei e da quel momento in poi dipendeva solo da noi, dalle nostre abilità di conquistatori seriali.

La terza possibilità era la più semplice, desiderata come un goal di Pruzzo o Bruno Conti nel derby con la Lazio.

A rispondere era direttamente lei, senza intermezzi di altri familiari, tipo madri logorroiche, padri gelosi e fratelli burloni.

In quel caso la realtà si tingeva con i colori del sogno.
Non sempre, tuttavia, era possibile chiamare da casa. Magari si desiderava maggiore intimità, oppure si era da qualche parte in vacanza. In quei casi non rimaneva che affidarsi al famigerato telefono a gettoni.
Quello era un aggeggio che nel pleistocene permetteva a chiunque di telefonare da fuori di casa.
Di norma questi cassoni zincati erano posti all’interno delle famigerate cabine. Scatole posizionate, chissà perché, sempre in posti assolatissimi, tanto che se si superavano i tre minuti di telefonata la liquefazione era certa, specie se le cabine, cosa rara a Roma, fossero munite di porte.
Per telefonare bastava mettere uno o più gettoni, (dischi color bronzo che avevano un taglio orizzontale sul davanti e due sul retro e che negli Stati Uniti erano stati aboliti nel 1944, in piena Seconda guerra mondiale), nell’apposito beccuccio posto in alto sempre che la sorte ci fosse benigna.
Poteva accadere, infatti, che, presi dall’emozione, i nostri gettoni cadessero sul pavimento della cabina, infilandosi inevitabilmente nelle feritoie laterali.
In quel caso era la fine.
La possibilità di recuperali era pari a quella di Maurizio Costanzo di pronunciare correttamente la lettera d.

Insomma se non cadevano i gettoni, se si riusciva ad arrivare al beccuccio, e se il telefono funzionava il più era fatto.

Rispetto alla telefonata da casa, però, c’era un altro temutissimo rischio oltre a quelli già descritti: l’invadente.
Questi, descritto da corposi manuali di antropologia criminale, era un uomo di mezz’età, che, a solo scopo intimidatorio, sperando di abbreviare la nostra chiamata, si piazzava a un palmo da noi, quasi entrando nella cabina, tanto che era inevitabile percepire il suo alito cipollato.
Non c’era speranza. Mai avrebbe mollato, rinunciando al suo spietato intento.

Anzi, per raggiungere il suo scopo, avrebbe messo in atto altre azioni di disturbo, a cominciare dal tintinnio dei gettoni.
Questa acustica pratica consisteva nel far saltellare ripetutamente sul palmo della sua mano alcuni gettoni, o delle chiavi, o entrambi, al fine di ottenere, attraverso l’insopportabile stimolazione uditiva, la fine della nostra telefonata.
Se anche questa azione non determinava l’effetto voluto il tizio metteva in atto l’ultima laida azione: il commento non richiesto.

Si trattava di vere e proprie glosse vocali alla nostra intima telefonata.

Lo sconosciuto poteva fare considerazioni di ogni tipo; dal nomignolo con cui appellavamo la nostra ragazza, alla decisione dell’ora e del luogo dell’appuntamento, perfino alla scelta del vestito da indossare.
Ma se anche questa bassa scorrettezza non andava a buon fine c’era il classico «a regazzì ce n’hai pé parecchio?»
E lì di solito, anche i più forti, desistevano.
Allora si lasciava mestamente la cabina, ormai satura dalla commistione di speziati afrori, al vincitore, che tronfio si impossessava della cornetta come fosse il più desiderato dei premi.

Oggi è tutto diverso.

Alla solita festa il numero della ragazza lo scriviamo sul cellulare e dopo un secondo mandiamo un messaggio, magari un’emoticon o, se si è più spregiudicati, una foto, una canzone, o addirittura un video.
E il gioco è fatto.

Nota bene

Questo racconto è finalizzato a ottenere da voi giovani, figli dei cellulari, la massima comprensione per noi che ci innamoravamo al tempo del telefono a gettoni.
Siamo ancora soggetti sensibili, provati da una marea di telefonate che non dimenticheremo più, perché, in fin dei conti, come sosteneva Gotthold Ephraim Lessing:

«l’attesa del piacere è essa stessa piacere.»

Maurizio Carvigno

Nato l'8 aprile del 1974 a Roma, ha conseguito la maturità classica nel 1992 e la laurea in Lettere Moderne nel 1998 presso l'Università "La Sapienza" di Roma con 110 e lode. Ha collaborato con alcuni giornali locali e siti. Collabora con il sito www.passaggilenti.com

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