“Può capitare anche questo, uscire di casa per l’ultima volta e non saperlo.”
Sono passati quasi sette mesi da quel 13 novembre. Un venerdì sera che vestiva già gli abiti della superstizione, caduto su un numero che spesso accompagna i film dell’orrore.
E l’orrore effettivamente c’è stato. A Parigi, in un locale come tanti, durante un concerto come tanti.
Era il Bataclan, colmo di gente, mentre gli Eagles of Death Metal facevano cantare il pubblico.
Luci che si trasformano in sangue, note che mutano in grida. Così i kamikaze si sono fatti strada nella quotidianità, togliendo dalla faccia della terra 130 vite (e non solo nel locale).
Non siamo certo qui per raccontare a tutti il già noto, ma forse per ricordare.
Non ci siamo scordati, penserete, ma cosa ci è rimasto effettivamente di quella notte?
Qualche brivido in metro per i primi mesi con i militari, almeno per quando concerne la Capitale, qualche dubbio sulla serata in centro-centro, dove è più pericoloso.
No, che non abbiamo dimenticato, ma sicuramente abbiamo dovuto accantonare.
E’ un moto di sopravvivenza legittimo, una dimostrazione di attaccamento alla vita.
In un romanzo a me molto caro, Cronache di Poveri Amanti, Pratolini sfoggia almeno due frasi che si legano bene a questo concetto.
Dimenticare è l’aiuto che ci offre la vita perché la viviamo.
Bonifacio Vincenzi lo sa e pubblica con LietoColle una silloge poetica dal titolo “Bataclan“, affinché la penna fermi il tempo, immortali su carta l’inenarrabile. La divide in quattro sezioni: “Un attimo prima degli spari”, “Vittime”, “Il sorriso di Marie” e “L’abitudine della vita”.
Ci aspetteremmo un tributo all’italiana Solesin, ma è Marie Lausch, trasferitasi da poco a Parigi con il fidanzato Mathias Dymarske, la protagonista dei componimenti.
La generazione Bataclan entra così nei versi del Vincenzi, viene descritta con delicatezza, attraverso una parola poetica semplice, molto vicina alla prosa. Si parla di morti precoci, di vite strappate, con la malinconia di chi osserva un bambino succhiare il frutto della giovinezza finché non gli viene rubato.
Ah Prévert! Ah Prévert! i tempi cambiano.
Ora i ragazzi che si amano muoiono nell’abbagliante splendore della loro libertà.
Leggendo le parole dedicate alla giovane ventitreenne riecheggia quell’Ode all’urna greca di J. Keats, dove si inneggia alla bellezza eterna dei personaggi dipinti: non invecchieranno mai, non deluderanno mai le aspettative che nutrono nei confronti dei loro sogni, regaleranno un sorriso eterno a chiunque li ammirerà.
Come loro Marie.
Non invecchierai mai vivrai giovane e sorridente negli occhi del mondo
un unico eterno amore e la certezza di essere vissuta senza tradire i sogni.
Significativi i richiami alla natura, sia a livello concettuale che verbale. Le morti sono accostate agli alberi, alle foglie, al cielo e alle stelle; i giorni di Marie sono “franati”, come frana la terra, all’improvviso, e senza speranza di risollevarsi.
In contrasto con delle esistenze rotte perché “la morte ha giocato sporco“, le nostre vite appaiono sempre uguali, con la nostra noia, e la nostra paura di invecchiare.
Poiché vivere è il nostro destino fino al giorno di morire, diceva ancora Pratolini.
E ammettiamo che ci siamo sentiti più vivi dopo queste morti, ammettiamo che un fremito ha scosso la nostra esistenza facendoci riflettere sulle nostre effimere necessità, sui nostri quotidiani capricci. Ricordiamo che alcune persone dovranno continuare a vivere senza i loro cari. Possiamo conservare questo libro come un piccolo talismano, un monito costante, una preghiera per salvare (laicamente, s’intende) la nostra anima: non siamo al mondo per vivere nella paura, ma nemmeno per ignorarla.
Alessia Pizzi