Coronavirus, ormai non si parla d’altro. Supermercati vuoti, treni sospesi, regioni sigillate, mascherine ovunque, amuchine esaurite.
Sembra una poesia crepuscolare, mentre è solo un sintetico racconto della psicosi di massa che stiamo vivendo.
L’amore ai tempi del Coronavirus, scrivono le mie amiche sulle loro bacheche di Facebook, riecheggiando un Gabriel García Márquez mentre loro sono a Roma e i compagni al Nord d’Italia.
Personalmente non sono solita vivere nel panico, tanto che a Carnevale ho comprato una corona dal cinese per travestirmi da Coronavirus. Forse sono solo incosciente, forse vedo sempre il bicchiere mezzo pieno, anche stavolta.
Arriva da poche ore infatti la conferma del ritiro del decreto Fioramonti, che – per farla breve – chiudeva le lauree telematiche in psicologia e scienze della formazione. La querelle sul diritto allo studio mi ha abbastanza colpita in questi mesi: per l’ennesima volta ho letto commenti sui social network carichi di odio e ignoranza contro qualcosa che nemmeno si conosce così bene. Come spesso accade, infatti, l’ignoto è facilmente giudicabile.
E quindi le lauree online sono per gli scansafatiche, per chi non ha voglia di fare nulla, sono lauree “facili”.
Poi però arriva il Coronavirus e le scuole chiudono a tempo indeterminato. Il MIUR, giustamente, si attiva con l’homeschooling ed ecco che anche i normali diventano diversi. Tutti dovranno studiare online, tutti saranno studenti di serie B, quindi?
Perché in questi mesi, oltre a leggere commenti retrogradi, ho letto anche le storie di tante persone che hanno trovato nella laurea online una possibilità di vivere, di combattere, di realizzare i propri sogni.
Ho letto storie di mamme che non hanno tempo e studiano di notte, di persone disabili che non possono spostarsi, di gente che non può permettersi un trasferimento, di malati che girano con il libro sottobraccio in ospedale.
Tutte persone che mandano a farsi benedire lo stereotipo dello “scansafatiche” e dimostrano al mondo che i desideri sono importanti, ma soprattutto perseguibili nonostante le avversità, se i mezzi ce lo consentono.
Senza contare che ci sono tante persone che studiano nelle università tradizionali da non frequentanti (come ho fatto anche io praticamente per i primi tre anni), e tante altre che ci mettono dieci anni per laurearsi perché forzati dalle aspettative familiari o spinti dalla corsa al “pezzo di carta” che sembra così imprescindibile. Però l’importante è uscire da un’università tradizionale, eh… Non importa COME.
Nel mondo l’e-learning è una pratica ampiamente affermata, mentre l’Italia storce ancora il naso. Ma se ai commenti degli haters siamo abituati, cosa dovremmo pensare quando decisioni così arretrate arrivano dall’alto?
Forse che la politica è davvero lo specchio di un Paese retrogrado, perché composto da menti retrograde. Grazie al cielo, però, col ritiro del decreto si intravede un po’ di luce alla fine del tunnel.
In questi mesi si sono fatti avanti con lettere e movimenti sui social networks gli studenti, le università online e moltissime associazioni proprio per far capire che questa mossa era davvero anacronistica (per usare un eufemismo).
Sembra fatto apposta: ora il decreto viene ritirato e tutta l’Italia è sigillata in casa, in preda all’homeschooling.
Non ci resta che sfornare studenti di serie B, quindi, se sopravviveranno al virus… naturalmente. O almeno questo è quello che avrebbe pensato l’italiano medio prima dell’effetto Corona. Ma sì sa… la necessità fa virtù e di fronte all’apocalisse va bene tutto: pure una laurea online (o un diploma, si fa per dire).
Alessia Pizzi