Climate March: la voce di chi marcia per il clima

Tutto il mondo è sceso in piazza per marciare a nome della Terra. Questo è il racconto della marcia di Roma, l’ultima domenica di novembre.

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“Il clima lo cambi tu.” ©Gabriele Di Donfrancesco
In tutto il mondo i cittadini sono scesi in piazza per reclamare il proprio diritto sulla Terra, in occasione delle giornate di Parigi sul clima: Cop21. Non potevamo certo mancare noi di Culturamente. Così ci siamo uniti alla grande Marcia per il Clima che si è tenuta a Roma domenica 29 novembre, partendo da Campo dei Fiori per arrivare ai Fori Imperiali, con concerto conclusivo. In mezzo a palloncini e cartelloni, i partecipanti sono tanti, ognuno con una causa, una propria esperienza di difesa. Il colore dominante è quello delle bandiere di Legambiente, il gruppo più numeroso, presente come rappresentante della rete locale di attivisti. A seguire il bianco WWF, Italia Tibet e molte altre. Tutte insieme formano la Coalizione Clima, che porta simbolicamente sulle spalle il globo terrestre. La Terra e la sua gente sono in marcia, un messaggio chiarissimo: siamo noi a dover cambiare, non il clima. Noi di Culturamente abbiamo raccolto alcune voci significative, fra gli striscioni colorati ed il suono dei tamburi di una festa.
Avaaz.org è stato molto importante per diffondere la notizia della marcia. ©Gabriele Di Donfrancesco
È una squisita ironia aver scelto come luogo d’incontro Campo dei Fiori. Sotto la statua silente di Giordano Bruno, il volto oscurato dal mantello di metallo, si radunano i difensori di quella Natura che lui tanto aveva divinizzato. La giornata è tiepida e l’aria è limpida. Lo striscione del WWF è tenuto proprio sotto il naso di Bruno: “save the climate, save the humans“. Stupisce la cordialità delle persone: è come trovarsi in una grande famiglia. Si scambiano sorrisi, si chiacchiera con gli sconosciuti. In effetti ci sono tutti: famiglie con bambini, adulti, ragazzi, attivisti, vegliardi. L’intera società rappresentata in un’unica marcia. Difficilmente un’altra battaglia avrebbe raccolto una fascia così eterogenea, a testimonianza di quanto l’ambiente sia alla base della comunità, per quanto la politica finga di non capire. Quando parte il corteo si procede a tempo di musica. Intorno a noi rimbombano i colpi di tamburi del gruppo Akuna MatataPersino una coppia di sposi si è unita al loro ritmo, lanciandosi in qualche passo carico d’amore. Ma noi non siamo qui solo per partecipare. Vogliamo lasciare un documento del momento. Forse avevamo il presentimento di quello che sarebbe successo: i telegiornali nazionali occupati a trattare degli scontri dei Black Block a Parigi, oscurando il resto; la notizia, l’etica, l’informazione.

La parola a chi difende il mare

Stiamo ormai attraversando Largo Argentina quando incontriamo Maria Rabini, il segretario generale di Marevivo. Regge parte dello striscione blu. La loro associazione è impegnata da oltre trent’anni nella tutela dei mari. “La maggior parte delle persone ignora che il mare è uno dei motori principali del clima. Assorbe un terzo della CO2 che produciamo, genera l’ossigeno che respiriamo, ma lo fa solo se è in buona salute.” Ci spiega. Sugli esiti della conferenza è fiduciosa. “I capi di stato che si incontreranno a Parigi sanno che l’appuntamento è importante e non può andare deluso.
Eppure sono molte le contraddizioni. Si parla di accordo sul clima, ma i pozzi petroliferi autorizzati da Renzi con lo Sblocca Italia fioccheranno come funghi nello Jonio. A livello internazionale i nuovi accordi commerciali tra Stati Uniti ed Europa (TTIP), Stati Uniti ed Asia (TPP) promettono più esportazioni, l’incremento dei consumi, la conferma dell’ingerenza delle multinazionali nelle questioni globali. Niente a che vedere con le dichiarazioni pentite di un mondo che ha intenzione di cambiare direzione. Anche in questo caso, Rabini si mantiene realista. “Diciamo che la transizione dalle fossili necessita di determinati passaggi, per cui non è che da domani noi potremo cessare di utilizzare le fonti fossili. Però ciò necessita di un piano. Quanto noi chiediamo a gran voce è che ci sia un chiaro piano di decarbonizzazione in Italia e soprattutto una strategia energetica, che ci dica come si intendono affrontare i prossimi passi futuri. A conti fatti, se andiamo a guardare, l’Enel ha già un progetto di decarbonizzazione che il nostro paese non ha.” Prima di salutarci, ci lascia un ultimo consiglio, rivolto alle persone che iniziano ad interessarsi alla comunità e all’ambiente. “Io credo che mi rifarei all’ultima enciclica del Papa, Laudato Sii, in cui il fattore importante che lui ha introdotto è quello dell’etica. Non ci dobbiamo sentire dominatori nei confronti di nulla e neanche delle cose che utilizziamo, perché solo un approccio eticamente corretto ti garantisce che per il futuro tu avrai il rispetto dell’altra parte. Tutto ciò a cui ti approcci come dominatore è destinato fatalmente a creare problemi.

E così arriviamo al Tibet

 ©Gabriele Di Donfrancesco
La vera bandiera del Tibet. ©Gabriele Di Donfrancesco
Continuiamo a farci largo nella marcia. Un gruppo ha particolarmente attirato la nostra attenzione. Gridano “Tibet terzo polo! Tibet third pole!” Trasportano l’enorme bandiera della loro nazione. Sono i membri di Italia Tibet, affiancati dalla più minuta comunità tibetana in Italia. Nata nel 1988 da una manciata di appassionati, l’associazione conta ora più di 1700 membri in tutta la penisola. Riusciamo a parlare con il presidente Claudio Cardelli.
Cardelli si sente in dovere di rinfrescare la memoria su una storia che spesso si conosce, ma appena a grandi linee. Non ci si domanda, ad esempio, quali cambiamenti abbiano investito il Tibet in sessantacinque anni di occupazione cinese. “In questo momento il Tibet è sottoposto ad un’aggressione coloniale spaventosa da parte della Cina, che continua ad inviare milioni di cinesi nella zona. Hanno superato largamente la popolazione tibetana ed il territorio, che era assolutamente vergine fino agli anni ‘50, è stato investito dalla politica cinese di sviluppo economico forsennato. Perciò noi oggi ci occupiamo del clima e del Tibet, ma ovviamente questo vuol dire politica, economia. Vuol dire anche cultura. La cultura del Tibet, voglio ricordare, è una cultura specifica; non parliamo di una minoranza della Cina, come loro invece amano far credere.
Ci sono più di quarantaseimila ghiacciai registrati in Tibet, rendendo il paese una delle riserve d’acqua potabile più grande al mondo. Quando però si parla di bacini, la loro presenza non implica la necessità di sfruttamento. Così come sono, svolgono un ruolo di regolamento climatico. Ma la regione si scalda: in trent’anni si registra una riduzione del 15% della superficie ghiacciata. A dirlo è l’Accademia delle scienze cinese. Ipotizzando che la situazione resti invariata, entro fine secolo l’area utile sarebbe ridotta del 60%.
Non siamo più in una situazione di allarme, ma di stadio avanzato. Ricordo che la Cina negli anni ottanta ha disboscato in maniera selvaggia tutto il Tibet orientale. Quando noi parlavamo di Amazzonia era in corso un’Amazzonia silente ai confini con lo Yunnan, con la Birmania. […] E il Tibet per i cinesi fa gola. Tanti i giacimenti mai sfruttati di uranio, di rame; di metalli rari.” Quando chiediamo a Cardelli come pensa che la Cina si porrà durante le conferenze di Parigi, mi risponde trattenendo una risata amara. “Diciamo che della Cina non mi sorprendo mai di niente per la sfrontatezza con cui asseriscono certe cose. […]Ogni volta che il Dalai Lama viene ricevuto da politici o partecipa ad eventi di rilevanza internazionale – come a Roma l’anno scorso per il summit dei nobel per la pace- la Cina esercita delle pressioni con un’arroganza incredibile. Lei che non tollera interferenze all’interno dei suoi confini interferisce continuamente con gli affari interni delle altre nazioni. Fanno la voce grossa. […] La Cina dichiarerà che tutto va bene e che loro stanno lavorando per i diritti umani e per il clima. E con questo ci metteranno apposto, temo. Però se sarò smentito non mi dispiace. Io spero in un cambiamento.

Le nostre guerre hanno ucciso anche il clima

 ©Gabriele Di Donfrancesco
Correggia con altre due rappresentanti della Rete NoWar. ©Gabriele Di Donfrancesco
Continuiamo la nostra marcia, quando ci salta all’occhio un cartello con un messaggio insolito: “Le nostre guerre hanno ucciso anche il clima.” In effetti è un dettaglio che sfugge. A Parigi si discute di clima ma si parla anche di guerra al terrorismo, di interventi militari. Nel frattempo piovono bombe sui territori occupati dall’Isis; si colpiscono avamposti, bruciano i giacimenti. È un gruppo di donne a ricordarcelo. Ci presentiamo ad una di loro. Lei è Marinella Correggia, della Rete NoWar. Ascoltiamo il suo impegno.
Con questi cartelli vogliamo dire che le guerre che abbiamo fatto come Nato, come alleanza atlantica, dal ’91 ad oggi – sono ormai cinque guerre di bombardamento- non solo distruggono territori e uccidono persone – molte di più di quante non siano morte a Parigi- ma si uniscono ai cambiamenti climatici. […] Il settore militare e le guerre contribuiscono per oltre il 10% all’effetto serra: una grande responsabilità. Non parliamo della guerra che si sta pensando di fare all’Isis, ma già di quante sono state fatte con pretesti cosiddetti umanitari.” Una grande ipocrisia da parte nostra: la classica schizofrenia occidentale.
La cosa grave è che il settore militare non è interessato dal protocollo di Kyoto. Non hanno obblighi di riduzione delle emissioni. Quindi è paradossale; come se fossero madre Teresa di Calcutta, no?” C’è una nota di amaro sarcasmo quando conclude: “È una cosa che gli stessi ecologisti non considerano. Anche a Parigi tutta la coalizione dei movimenti ambientalisti non ha affrontato questo problema.” Secondo quanto scritto dagli esperti Mike Berners-Lee e Duncan Clark del Guardian nel 2008, si stima che la guerra di Bush in Iraq abbia prodotto tra i 250 e i 600 milioni di tonnellate di gas serra. Le emissioni annue del Pentagono lo pongono come il singolo inquinatore istituzionale più grande al mondo.
Su questo argomento Correggia ha scritto altri articoli. Il più recente può essere rintracciato a questo link.

Lavorare in coalizione

©Gabriele Di Donfrancesco
Il corteo di Greenpeace, lasciando Largo Argentina. ©Gabriele Di Donfrancesco
Siamo andati molto avanti nel corteo e ormai ci troviamo quasi a Piazza Venezia. La folla defluisce con i suoi colori, i suoi stendardi e quel senso di positività proprio delle manifestazioni pacifiche. C’è chi porta con sé il nome stampato di uno delle migliaia di cittadini di Parigi, impossibilitati a scendere in piazza per le nuove misure di sicurezza. Anche questo è parte del calore della giornata. Abbiamo ancora tempo e riusciamo a parlare con Luca Iacoboni, responsabile della campagna clima-energia di Greenpeace Italia. Partecipa anche lui alla marcia nonostante la stampella. La soddisfazione è tanta per la rilevanza mondiale dell’evento. “Marciamo anche per i cittadini di Parigi ma si marcia in tutto il mondo. È una presenza molto importante perché non si limita a Roma, è veramente globale. Oltre 23000 manifestazioni in 150 paesi, quindi numeri importanti.
Di conferenze per il clima ce ne sono state parecchie nel corso degli anni, quindi chiediamo se questa possa essere la volta giusta. “Ce lo chiediamo anche noi e non abbiamo risposte. Quello che sappiamo è che per noi e per tutto il movimento climatico Parigi non è una tappa d’arrivo e non è la fine. È solamente una fermata. […] I prossimi anni saranno estremamente pieni di eventi e mobilitazioni come questa perché la gente sta iniziando a capire l’importanza dei cambiamenti climatici.
I volontari di Greenpeace costituiscono un buon numero di maglioni verdi, carichi sulle spalle con zaini e sacchi a pelo. Non sono gli unici ad essere venuti a Roma dal resto della penisola. Molti di loro si sono dedicati all’organizzazione della giornata, ma è stato uno sforzo collettivo che ha coinvolto più associazioni. Non a caso si parla di Coalizione Clima.
Lavorare in coalizione non è facile, ancor più in una eterogenea come questa, dove ci sono associazioni ambientaliste, sindacati, comunità religiose, associazioni d’agricoltura: di tutto. Però è un segnale positivo, perché significa che il tema dei cambiamenti climatici riguarda davvero tutti i settori, l’economia in primis. Vogliono agire. Faccio l’esempio dei sindacati, che sono nella coalizione perché le energie rinnovabili sono posti di lavoro. C’è un manifesto politico che è stato approvato e riporta tutte le posizioni della coalizione. Non sono sempre le stesse di ogni singolo gruppo, ma ogni tanto è importante fare mezzo passo indietro come associazione per farne cento avanti come movimento.
Non resta che attendere i risultati della Cop21, senza troppe illusioni.

Gabriele Di Donfrancesco

Nato a Roma nel 1995 da famiglia italo-guatemalteca, è un cittadino di questo mondo che studia Lingue e Lettere Straniere alla Sapienza. Si è diplomato al liceo classico Aristofane ed ama la cosa pubblica. Vorrebbe aver letto tutto e aspira un giorno ad essere sintetico. Tra le sue passioni troviamo il riciclo, le belle persone, la buona musica, i viaggi low cost, il teatro d'avanguardia e la coerenza.

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