Il Teatro dell’Opera di Roma sta portando ora in scena una produzione di una delle più belle opere di Giuseppe Verdi, cioè “Un ballo in maschera”
Una musica densa, che ti entra nel cuore e non ti lascia più. Il duetto d’amore del secondo atto de “Un ballo in maschera” è stato giudicato come il più bel duetto d’amore che Giuseppe Verdi abbia composto. Non è facile fare una classifica della bellezza dei duetti d’amore verdiani, ma questo sta sicuramente ai primi posti come tutta l’opera, e dobbiamo ringraziare il Teatro dell’Opera di Roma che sta portando in scena questo capolavoro dal 16 ottobre al 30 ottobre 2016. Ma quando si recensisce, bisogna essere obiettivi ed analizzare tutto con serietà; quindi, scusate il gioco di parole, facciamo cadere “la maschera“.
L’opera, estratta dal dramma Gustave III, ou le Bal Masqué (Gustavo III o il Ballo in Maschera) di Eugène Scribe), andò in scena la prima volta il 17 febbraio 1859 al distrutto Teatro Apollo di Roma.
La storia, basata in parte su una vicenda reale, narra della passione amorosa del Re Gustavo III di Svezia per Amelia. Essa è la moglie di Anckarström, il migliore amico del re. Quando egli viene a scoprire il misfatto, decide di unirsi ai congiurati che stanno tramando per uccidere il Re. Gustavo verrà infatti pugnalato dall’ex amico durante un ballo in maschera, ma prima di morire, riesce a perdonare tutti, tra la disperazione di Amelia, di Oscar, il suo paggio, di Anckarström, che si è accorto di quello che ha fatto, e di tutti i partecipanti, anche gli stupiti congiurati.
L’opera dovette subire il vaglio della censura e quindi l’azione fu trasportata a Boston ed il Re divenne il governatore di Boston Riccardo (in quanto si ritenne, dati gli anni ferventi, che fosse poco dignitoso far vedere il re che muore per una questione d’amore), Amelia rimase tale e Anckarström divenne Renato, ed è questa la versione che si è quasi sempre ascoltata. Il Teatro dell’Opera di Roma ha deciso di proporre la versione originale.
Il Re Gustavo è stato interpretato da uno straordinario Francesco Meli, un giovane ma già validissimo tenore, dalla voce meravigliosa e grande tecnica, ma soprattutto grande attore sulla scena; ogni nota ed ogni parola avevano il giusto accento e peso (come potei provare sempre ne Un ballo in maschera all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia nel giugno 2013, ed ecco la registrazione della sua aria di quell’occasione). Meli ha fatto tante volte questo personaggio e si sentiva ciò, ed il pubblico gli ha tributato gli applausi più calorosi della serata.
Deludente è stata la prova del soprano cinese Hui He come Amelia, che già sentii quest’estate a Verona ne Il Trovatore. La voce si è molto appesantita, con problemi enormi in acuto, tali da calare terribilmente d’intonazione nella grande aria del secondo atto Ma dall’arido stelo divulsa e costringendola a riadattare tutta la cadenza finale. In tutto questo la recitazione ed il personaggio erano assenti.
Anckarström era il giovane baritono italiano Simone Piazzola, il quale è partito sottotono ma nel corso della serata ha preso coscienza delle sua facoltà, regalandoci un bel terzo atto con una commovente interpretazione della terribile aria Eri tu, accolta da applausi sinceri.
Un vero portento vocale e scenico era Dolora Zajick nel ruolo di Ulrica (il nome della versione svedese era Arvidson), la strega che predice al Re la sua fine. Questa signora cantante, che calca i palchi dal 1974 ed ha lavorato con direttori come Riccardo Muti, James Levine e tanti altri, ha una voce torrenziale ma anche un grande temperamento ed una grande tecnica che la trasformano in qualcosa di insuperabile, di disumano.
Oscar, il sopra citato paggio di Gustavo, era la bravissima Serena Gamberoni, che ricordiamolo, nella realtà, è la moglie di Francesco Meli. Anche la Gamberoni ha una voce splendida, è simpaticissima (è stata capace di fare due volte la ruota) ed il suo Oscar non è mai querulo come spesso si sente, ma una persona che vive. Mi è piaciuto il suo sottolineare, nel tragico finale, il fatto che, secondo la mia personalissima e criticabilissima opinione, Oscar ami il Re.
Molto bene i comprimari, Alessio Cacciamani e Dario Russo nei ruoli dei congiurati, i Conti Horn e Ribbïng, e Gianfranco Montresor nel ruolo del marinaio Christian, mentre invece Gianluca Floris, che faceva il giudice, aveva una voce nasale e legnosa.
Il mio plauso più sincero è andato al maestro Jesús López-Cobos, il quale, da grandissimo concertatore che è, ha sostenuto i cantanti alla perfezione ma il suo non era solo accompagnamento. Egli ha “cantato” con i cantanti ed ha messo perfettamente in luce la particolarità della scrittura verdiana di quest’opera. Il primo atto è frivolo, il Re Gustavo ha dei tratti tutto sommato antipatici e vuole mettere alla prova questa strega che alcuni vogliono condannare, non credendo alle sue purtroppo vere profezie. Ma è dal secondo atto che entra il dramma, la passione d’amore ardente, fino al tragico epilogo, e tutto questo è stato messo perfettamente in luce dalla direzione e dalla splendida Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, mentre invece il Coro mi è sembrato poco concentrato e non del tutto intonato.
Purtroppo la parte non convincente che mi ha fatto decidere, come dicevo in apertura, di far cadere la maschera, è stata la regia di Leo Muscato, che tutto sommato era rispettosa del testo, ma mi ha lasciato molto, per dire un eufemismo, perplesso. Per il regista “dentro quest’opera ci sono degli elementi che veramente danno l’impressione di essere dentro una favola” e li elenca tutti: il re, l’amore, la strega, il suo migliore amico, i traditori, etc. Sempre secondo il regista nella favola “tutto ciò che accade dà l’impressione di essere estremamente realistico” e “che le cose che sono raccontate a volte hanno un che di non totalmente credibile” e ciò può anche andare per questa storia (per questo vi rimando all’intervista che si può vedere su questo link), ma far iniziare l’opera con scritte del tipo (adesso non mi ricordo le parole esatte, mi perdoni Sign.Muscato) “C’era una volta un re“, che ricordavano l’inizio tipico della favole, con Amelia che interrompeva un duello tra Gustavo ed Anckarström ed i tre che andavano tutti insieme come se nulla fosse stato ha messo in risalto un aspetto che a me sembrava comico in un’opera drammatica. Il ballo finale, con alcune mosse che erano stilizzate, non solo era brutto da vedere ma distoglieva l’attenzione dall’ultimo drammatico incontro dei due amanti, e poi vi sono state una serie d’incongruenze; per esempio, quando si deve decidere chi trafiggerà il re, Amelia viene scelta per estrarre a sorte il nome dell’assassino. Nonostante le sia stato detto tre secondi prima “v’han tre nomi in quell’urna” i foglietti erano in un tricorno. Peccato perché le scenografie di Federica Parolini erano molto belle e, attraverso il proporre tutte superfici angolate, davano molto l’idea della favola ed i costumi di Silvia Aymonino erano stupendi, ed anche alcune idee non erano niente male (come il fatto di isolare con delle luci molto belle curate da Alessandro Verazzi i cantanti in alcuni momenti, lo studiolo di Gustavo che diventa improvvisamente la sala da ballo con dei coriandoli che cadono dal soffitto e Ulrica che compare nel finale per dimostrare che lei aveva con ragione previsto tutto).
Ma la musica di Verdi è talmente bella che tutto passa in secondo piano ed io me lo immagino, lì sulla nuvoletta, a ridere e parlare della sua arte con i più grandi che l’hanno cantata, diretta, interpretata e soprattutto “vissuta“.
Marco Rossi
(Foto di Yasuko Kageyama/TOR)