Il Teatro dell’Opera di Roma ha aperto la Stagione 2016/ 2017 con il Tristano e Isotta di Richard Wagner con una, purtroppo, deludente produzione.
Il Tristano e Isotta di Richard Wagner è un’opera di alchimia. Andata per la prima volta in scena a Monaco di Baviera nel 1865, narra la storia d’amore tra Tristano e Isotta. La storia inizia su di una nave che sta raggiungendo le coste della Cornovaglia dall’Irlanda. Su di essa vi è Isotta, prigioniera, che Tristano sta portando a suo zio, Re Marke, per farla diventare sua sposa. Essa era la promessa sposa di Morold, il quale, avendo tormentato la Cornovaglia con tributi molto pesante, viene ucciso da Tristano. Per vendicarsi di tutte le sopraffazioni, essendo un’esperta di arti magiche, Isotta prepara un filtro velenoso per Tristano ma la sua ancella, Brangania, mossa da umana pietà, lo cambia con un filtro d’amore. L’attrazione sarà fatale, in quanto Re Marke scoprirà il tradimento del nipote grazie a Melot, infido amico di Tristano e segretamente innamorato di Isotta, il quale ferirà lo stesso Tristano durante il duello, a seguito del quale Tristano muore ed Isotta decide di morire accanto al suo amato, con Re Marke venuto a perdonare i due amanti avendo scoperto la storia del filtro.
Il Tristano e Isotta è un’opera di magia, dove l’azione non è quasi mai presente, ma è tutto legato al sentimento, con delle bellissime e lunghissime scene e duetti (il duetto d’amore del secondo atto dura circa quaranta minuti e l’opera dura più di cinque ore) ed ha fatto il Teatro dell’Opera di Roma a riportarla sulle scene per l’inaugurazione della Stagione 2016/2017 dal 27 novembre all’11 dicembre 2016 (la recensione si riferisce alla serata del 9 dicembre), dopo dieci anni di assenza . Ma purtroppo l’incantesimo si è infranto, possiamo proprio dirlo, sugli scogli.
Ad onor del vero sono un neofita wagneriano, avendo sentito dal vivo solo L’oro del Reno in forma di concerto all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia tre anni fa, ma purtroppo questa produzione è stata, a mio avviso, deludente su tanti punti.
La parte positiva è stata la prova magnifica dell’Orchestra e del Coro (nei suoi pochi interventi) del Teatro dell’Opera di Roma guidati da un formidabile Daniele Gatti, il quale, aiutato dal maestro del coro Roberto Gabbiani, è stato attentissimo a tutti i dettagli, vigoroso e passionale ma anche delicatissimo nel sottolineare il fatale amore dei due protagonisti.
Il cast lasciava molto a desiderare.
Isotta era il soprano inglese Rachel Nicolls, la quale aveva una buona voce, ma con tendenza ad affaticarsi in alto, mentre Andreas Schager, il tenore austriaco che interpretava Tristano, ha retto bene i primi due atti per poi calare nell’ultimo, causa forse anche la stanchezza.
Molto deludente era Michelle Breedt come Brangania, voce tutta chiusa in gola, non udibile. Un poco più sonoro ma sempre ingolato era il Kurwenal, amico e sodale di Tristano, di Brett Polegano.
Il basso canadese John Relyea era il Re Marke. Una bella voce, sicuramente la più penetrante di tutto il cast, ma con una tendenza pure lui a ingolare. Mi è parso, però, l’attore più convincente.
Molti bravi e sonori erano il Melot di Andrew Rees, il pastore di Gregory Bonfatti, il timoniere di Gianfranco Montresor ed il giovane marinaio di Rainer Trost.
Lo spettacolo di Pierre Audi, coprodotto con il Théâtre des Champs-Élysées di Parigi e De Nationale Opera di Amsterdam, non è stato certamente di aiuto. Non è stato il minimalismo la cosa peggiore o il presunto intimismo, di fatto già preesistente nella musica (aspetto che sarebbe stato voluto, secondo quanto detto dal regista, da Daniele Gatti sia per sottolineare l’aspetto delicato dell’opera ma anche adatto al piccolo spazio del teatro parigino), ma ridurre la nave a pochi pannelli semoventi, gli alberi del bosco del II atto ridatti a sagome (complici le scene di Christof Hetzer) ha annullato l’effetto grandioso dell’opera. I costumi, sempre di Hetzer, erano decisamente poco felici (Re Marke non può essere vestito con un cappotto ed una sciarpa simili a quelli indossati dai clochard) e le luci di Jean Kalman erano alquanto spettrali e spesso non aiutavano i protagonisti nella recitazione. Il sole creato con un faro sul fondale del palco era anche fastidioso alla vista. A tutto ciò si sono dovuti aggiungere elementi delle vera e propria regia a mio avviso non congruenti, come una parte del grande duetto tra i due protagonisti fatta dandosi la schiena. Un momento molto intenso è stato il finale, come il famoso Liebestod di Isotta, riapparsa in scena come un’anima dopo la morte e tutti i protagonisti dell’opera morti in scena.
Insomma, è stata un’occasione in parte sprecata.
Marco Rossi
(Foto di Yasuko Kageyama)