I Triolet con Reverie: quando la musica diventa viaggio

claude debussy reverie roma

I primi anni del 1900 hanno segnato una svolta incredibile nella storia della musica.

Vuoi per le numerosissime guerre che hanno sconvolto il panorama europeo (e non solo), vuoi per le conseguenze di un movimento artistico come il Romanticismo, che ha portato a mettere in risalto maggiormente la “spiritualità” piuttosto che i rigidi canoni formali del passato, anche la musica si è adattata, allontanandosi un pochino dai, seppur stupendi, schemi musicali di “mostri sacri” come Johann Sebastian Bach, per abbracciare le sensazioni e i sentimenti che la musica poteva essere in grado di generare in chi ascoltava.
Nasce il simbolismo musicale: la musica non racconta più le storie, ma ne è parte attiva, interpretando direttamente personaggi, ambienti, sentimenti. I suoni ricordano battaglie, le armonie musicali descrivono paesaggi naturali e sensazioni di pace, angoscia, dolore e amore, gli strumenti interpretano un ruolo chiave a seconda del timbro e dell’altezza.

È in questo contesto storico che emergono figure come Arnold Bax, Maurice Ravel e Claude Debussy, protagonisti “post mortem” dello spettacolo a cui ho assistito Venerdì 24 Agosto, all’interno della cornice suggestiva (Roma è sempre Roma, non c’è niente da fare) della Cappella dei Condannati a Castel Sant’Angelo.

Spettacolo magistralmente interpretato ed eseguito dal “Triolet”, ensemble composta da Manuel Zurria (flauto), Luca Sanzò (viola) e Lucia Bova (arpa). I tre musicisti, conosciuti nella scena europea per qualità nell’interpretazione della musica classica novecentesca e contemporanea, hanno messo in scena un incredibile excursus musicale dedicato proprio a questo periodo.
Il titolo dello spettacolo, “Reverie”, non è casuale: chiaro rimando alle atmosfere ed alle sonorità tipiche del panorama musicale francese dei primi anni del ‘900, come anche la “scaletta” dei brani eseguiti.
Da “Elegiac Trio” (1916) di Arnold Bax si passa a “Sonatine” di Ravel, saltando poi a “…and then I know ‘twas wind” (1992) del più moderno Toru Takemitsu, abilissimo riarrangiatore dell’impasto sonoro proprio del simbolismo musicale (anche se troppo astratto a parere personale), fino a ritornare nei primi del ‘900 con “Sonate” (1915) di Claude Debussy.
Piccolo ma apprezzato bis l’esecuzione di un piccolo estratto della “Tosca” di Giacomo Puccini che ben figurava all’interno di una cornice come Castel Sant’Angelo (proprio in questo luogo avvenne la fucilazione di Mario Cavradossi, amante della Tosca nell’opera).

Al di là della inconfutabile bellezza di queste opere (delle quali consiglio assolutamente l’ascolto a prescindere da gusti musicali personali, preferibilmente ad occhi chiusi e in pieno relax), vorrei sottolineare l’eccezionale complicità con la quale i tre musicisti hanno accompagnato le mie orecchie per tutta l’ora di ascolto.

L’arpa di Lucia costruisce le fondamenta sulle quali Luca alla viola e Manuel al flauto costruiscono temi e sensazioni, percorrendo percorsi paralleli e subito dopo contrastanti. Questi scambi avvengono sempre senza che nessuno prevalga rispetto all’altro: nonostante i ruoli diversi che interpretano durante lo sviluppo dell’opera, si percepisce chiaramente come tutti e tre abbiano chiaro l’obiettivo di immergere l’ascoltatore in continui viaggi attraverso le guerre, gli amori, e in generale le vicissitudini che hanno caratterizzato quell’epoca, sempre in maniera soggettiva.
“Sonatine” di Ravel (trascrizione a cura di Carlos Salzedo) alterna immagini di quiete e riflessive a ritmi più animati, Debussy ci accompagna con una sonata dalla struttura classica ma armonie mai ripetitive o dall’aria di “già sentito”, Takemitsu sorprende in ogni momento con sonorità aggressive e non sempre armonicamente inquadrabili.
L’arpa definisce in maniera incredibilmente emotiva le dinamiche dei brani, mentre il flauto vi ricama sopra atmosfere e temi in maniera varia ed il suono della viola, per cui ammetto di avere un debole, amalgama e unisce perfettamente il tutto. La ricetta di un buonissimo piatto musicale, insomma.
Non è facile descrivere le sensazioni che l’ascolto di brani di questo tipo trasmettono, perchè non è sempre intuibile lo scopo o il contesto nel quale si inseriscono.
Ma forse proprio questo è il bello di quel periodo: niente è stabilito, niente è chiaramente definito. Le sensazioni che un tema può dare devono essere reinterpretate dall’ascoltatore, proiettate sulla propria vita e le proprie esperienze, lasciandolo così libero di trarre le proprie conclusioni sul messaggio (o non messaggio) che recepisce.
Dario Palazzolo
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