Andrew Hozier-Byrne, meglio noto come Hozier, è tornato in Italia per un’unica data. La recensione del concerto all’Alcatraz di Milano.
Nonostante l’estrema semplicità nel proporsi in concerto al suo pubblico, la chiarezza quasi timida nel rispondere alle domande durante le interviste e la gentilezza che lo caratterizza persino nel modo di muoversi, Hozier è un cantautore dai grandi contrasti. Basti pensare alla viscerale sensualità che spesso ricorre nei suoi testi, meglio se tramite metafora religiosa. La spiegazione, sicuramente, risiede nell’ambiente famigliare in cui è cresciuto, molto diverso dallo stereotipo irlandese: suo padre era un batterista di blues prima che una operazione alla schiena lo inchiodasse su una sedia a rotelle. Ma quel sound influenzerà moltissimo il bambino di ieri, come dimostra il musicista di oggi.
Malgrado le pessime esperienze paterne, tali da spingere i genitori a crescere i figli come quaccheri, anche il giovane Andrew frequenta una scuola cattolica. Ma ciò che si forma in lui più che una fede – che dichiara di non avere, sebbene non si ritenga ateo – è una suggestione per il rituale cattolico e i temi a esso connessi.
Che tornerà spessissimo nelle sue composizioni, ma con intenti ben lontani dal proselitismo: la distintiva voce baritonale e il tono declamatorio del suo cantato potrebbero far venire in mente un predicatore. Basta, però, prestare orecchio ai suoi testi per capire che ci si trova di fronte a una celebrazione del corpo: esaltato, riscattato, desiderato o dilaniato dai più diversi sentimenti. Senza alcuna traccia di antropocentrismo tipico dei monoteismi: anzi, il suo è un invito a riscoprire un modo più naturale di vivere le proprie passioni, in armonia con il mondo circostante e la propria interiorità, senza farsi condizionare da credenze castranti o tabù culturali. Non a caso si definisce un global feminist.
Tutto questo si percepisce ancora più immediatamente se si ha la fortuna di assistere a un suo live, come mi è capitato all’Alcatraz di Milano il 18 novembre: la band che lo accompagna è formata da 4 donne e 3 uomini e ogni strumentista, a giudicare dallo spazio che gli lascia durante vari brani, pare godere della massima considerazione da parte di Hozier. Tanto da aver scelto di far aprire i concerti europei del suo tour a uno di loro, la bravissima Suzanne Santo. Oltre lei, sul palco lo accompagnano Alex Rya, Rory Doyle, Cormac Curran, Rachel Beauregard, Kristen Rogers e Thandii: una festa di talenti e gioia per l’udito.
Si comincia con la cullante – solo in apparenza, perché l’ambiguo testo evoca immagini di cadaveri e fosse scavate, quasi si trattasse di necrofilia – Like real people do per arrivare subito alla title track dell’EP da poco pubblicato – Nina cried power – insieme alla leggendaria Mavis Staples, passando per momenti più spensierati come Jackie and Wilson o From Eden. Ma è nei pezzi più oscuri che Hozier dà il meglio di sé, come la spettacolare Angel of small death and the codeine scene, la cadenzata To be alone, l’inquietante NFWMB – definita una canzone d’amore da apocalisse – e la feroce Arsonist’s lullabye.
C’è, però, spazio per altre atmosfere, come la scanzonata Someone new o la chrisisaakiana Moment’s silence (common tongue), argutamente riferita al sesso orale e alla potenza liberatoria che dona a chi lo fa e lo riceve. Immancabile il nuovissimo singolo: Movement, per il cui video è stato scelto il ballerino Sergei Polunin, notato dallo stesso Hozier in un filmato realizzato niente meno che da David LaChapelle sulle note di Take me to church. E non poteva essere che quest’ultimo brano a chiudere il concerto, con tutta la sua carica provocatoria.
In realtà c’è ancora tempo per due bis: il primo è una cover di Say my name delle Destiny’s Child, scelta insolita solo sulla carta mentre sulla bocca di Hozier diventa una toccante richiesta di attenzione.
Ci si saluta con Work song, il cui ritmo suona come il modo migliore per accompagnare il numerosissimo ed entusiasta pubblico fino a casa.
Setlist
- Like real people do
- Nina cried power
- Jackie and Wilson
- From Eden
- Angel of small death and the codeine scene
- To be alone
- NFWMB
- Cherry wine
- Shrike
- Arsonist’s lullabye
- Moment’s silence (Common tongue)
- Someone new
- Movement
- Take me to church
Encore:
- Say my name (Destiny’s Child cover)
- Work song
Cristian Pandolfino
Grazie per il bellissimo articolo, Hozier se lo merita…..anche se ho 65 anni suonati, c’ero anch’io all’Alcatraz ( gli ho donato la bandiera). Hozier mi ha rappacificata con la musica, neanche negli anni 70 c’è mai stato un cantautore cosi talentuoso ed illuminato.
Grazie a te per il commento, Marialuisa. Anche a me non capitava da tanto di imbattermi in un cantautore la cui produzione fosse di tale livello: non solo il suo utilizzo delle metafore religiose in ambito sentimentale è eccellente ma ha un ottimo sound, che traduce meravigliosamente dal vivo, e una gran voce. Il tutto, come sottolineo nel mio articolo, presentato con una semplicità e una modestia che non possono non conquistare.
[…] Nonostante l’estrema semplicità nel proporsi in concerto al suo pubblico, la chiarezza quasi timida nel rispondere alle domande durante le interviste e la gentilezza che lo caratterizza persino nel modo di muoversi, Hozier è un cantautore dai grandi contrasti. Basti pensare alla viscerale sensualità che spesso ricorre nei suoi testi, meglio se tramite metafora religiosa. La spiegazione, sicuramente, risiede nell’ambiente famigliare in cui è cresciuto, molto diverso dallo stereotipo irlandese: suo padre era un batterista di blues prima che una operazione alla schiena lo inchiodasse su una sedia a rotelle. Ma quel sound influenzerà moltissimo il bambino di ieri, come dimostra il musicista di oggi. La recensione del concerto continua su CulturaMente. […]