Nel ventennale della scomparsa di Stanley Kubrick, Marsilio editore pubblica un saggio sul cineasta americano, curato da Enrico Carocci, che rappresenta quanto di meglio i suoi milioni di fan potessero sperare.
Ecce Stanley Kubrick.
Visionario e poetico, eclettico e geniale, irrituale e unico, maniacale e perfezionista, oggetto di culto per milioni di cinefili.
Il “nostro” bravissimo Emanuele D’Aniello lo ha definito «il più grande regista della storia del cinema.»
Un film di Kubrick può piacere o no, ma di certo non lascia mai indifferenti.
Kubrick è come un dipinto di Picasso o una composizione di Stockhausen. Sulle prime non lo si comprende appieno ma, alla fine, rimane e per sempre.
Stanley Kubrick, saggio curato da Enrico Carocci, non è un libro facile, sia chiaro fin da subito.
Si tratta di un’opera complessa, strutturata e dal linguaggio molto tecnico, un testo che rifugge dalla banalità di certe biografie ma, per tutto questo, è assolutamente indispensabile.
Il libro pubblicato dalla Marsilio è piacere allo stato puro per chi ama il regista americano, già a partire dall’icastico titolo e dalla sua copertina.
Sotto il titolo, su uno sfondo rosa, compaiono le due gemelline di Shining che, con il loro vestitini azzurri, cinti ai fianchi da delicati nastrini e con quei volti inquietanti, angosciarono e non poco i milioni di spettatori in tutto il mondo.
Una carriera, quella di Kubrick, iniziata come fotografo, presso la rivista Look.
Fu, quella, una vera e propria palestra, attraverso cui il futuro regista acquisì non solo la padronanza tecnica, ma anche il metodo di lavoro d’equipe, elementi che ritorneranno in futuro e in modo non marginale.
I diversi saggi che compongono il testo curato dal professor Carocci, (insegna Estetica del cinema e dei media e Interpretazione e analisi dei film all’Università Roma Tre), ripercorrono le tappe di un’avvincente avventura, conclusasi, purtroppo, troppo presto.
Dai primi passi nel mondo del cinema, fino a Eyes wide shut, passando per tutti i capolavori realizzati nella sua quarantennale carriera.
I diversi capitoli del libro celebrano film che sono giustamente considerati monumenti della storia del cinema, vere e proprie leggende.
Lolita, Il Dottor Stranamore, Arancia Meccanica, Full Metal Jacket, solo per citarne alcuni.
E, ovviamente, 2001 Odissea nello spazio, vero e proprio spartiacque nella carriera di Kubrick.
Perché esiste un prima e un dopo 2001 Odissea nello spazio, e non solo nella vita di Kubrick.
Il suo cinema fu qualcosa di davvero unico e irripetibile.
Una creatura che lui permeò totalmente e dalla quale si fece completamente permeare.
Il regista americano, al contrario di molti suoi colleghi, fu il creatore di un brand, del suo inimitabile brand.
Come scrive Gianfranco Marrone, Kubrick fu :
«ideatore, promotore, produttore e traduttore di quel marchio identitario che porta il suo nome, a partire dal quale la serie altrimenti sfilacciata e opaca delle sue opere non saprebbe o non potrebbe trovare un centro unitario che ne garantisca la riconoscibilità comunicativa e il valore culturale.»
Si è molto discusso del rapporto di Stanley Kubrick con Hollywood. Sono state date varie interpretazioni e complesse spiegazioni.
Forse la migliore risposta è racchiusa in questo saggio.
«Non si può dire – scrive Enrico Carocci – che Kubrick sia rimasto al di fuori del sistema hollywoodiano, più di quanto non si possa dire che sia rimasto all’interno di esso: egli ha delineato un perimetro al cui interno i termini che troppo spesso vengono considerati opposti – l’arte e il mercato – si trovano affiancanti e non in contraddizione.»
Il complesso mondo del regista newyorchese, la genesi dei suoi film, ognuno incredibilmente diverso dall’altro, ma anche quei progetti mai portati a termine, come la pellicola su Napoleone, a cui tante vane fatiche dedicò.
Nulla rimane intentato in questo saggio.
Significative, in tal senso, le pagine dedicate agli esordi, al passaggio da cinefilo, (Stanley vedeva ogni film che venisse proiettato a New York), a quello definitivo di cineasta.
Ma fu grazie alle pellicole che assaporò nei cinema d’essai e nelle proiezioni al Moma, che Kubrick scoprì quel cinema d’arte europeo e orientale, oltre alle sperimentazioni d’avanguardia che tanto influenzeranno le sue future e più importanti pellicole.
Leggendo il libro curato da Enrico Carocci viene davvero voglia di rivedere ogni fotogramma delle opere del regista americano, guidati e scortati da questo prezioso, indispensabile strumento.
Impossibile non apprezzare i costanti richiami fra la letteratura, fonte primaria per molti filmi di Kubrick, e molte delle sue pellicole.
In particolare il rapporto fra il romanzo Nato per uccidere, scritto dall’ex marine Gustav Hasford e Full Metal Jacket, forse la testimonianza più lucida e dura sull’atrocità della guerra.
Anche i “kubrickiani” più accaniti, coloro che credono di conoscere tutto del loro mito, avranno modo di apprezzare oltremodo questo libro.
Perché in esso troveranno informazioni, spunti e analisi indispensabili per approfondire, attraverso un’ottica non comune, ma mai distorta, il cinema di Stanley Kubrick, la cui ambizione «era quella di tenere insieme istanze che il senso comune considerava distinte.»
Kubrick, infatti, fu sempre ossessionato dal recondito timore di diventare vittima del suo stesso cinema.
«Come negli scacchi, il gioco di Kubrick consisteva nel continuo evitamento di situazioni che avrebbero implicato l’impossibilità di muoversi.»
Maurizio Carvigno