La raccolta poetica di Michela Zanarella è ricca di versi pacati, garbati, anche profondi. Manca un po’ di emozione però.
Cosa vi aspettate quando aprite un libro di poesie? Siete senz’altro lettori dalle alte aspettative se sul vostro comodino riposano i sacri versi Emily Dickinson o di Shakespeare, di Saffo o di Catullo.
O forse vi chiederete, se siete approdati per caso su questa pagina del web, se esistono ancora persone – non docenti curiosi, non alunni annoiati – che leggono o acquistano libri di poesia. Di certo esistono ancora persone che scrivono poesie, penne ispirate che nell’era dei click e dei social credono che le parole su carta abbiano un potere. Non si sa bene quale, magari, ma comunque un potere.
E quindi cosa fa il poeta contemporaneo, che porta sulle spalle il peso di una grande tradizione, specialmente in Italia, e deve comunicare con questi lettori addormentati, distratti, abituati a ricercare le risposte in un titolo di un articolo su Facebook senza neanche aprirlo? Come possono i poeti di oggi credere davvero di poter conquistare l’attenzione nel mare magnum delle chiacchiere online?
Ci sono cose che uno sente. Una di queste è la scrittura. O la senti o non la senti, o ce l’hai o non ce l’hai. Michela Zanarella la sente. Ha bisogno di raccontare. Di raccontarsi, anche. Ma sempre con il dovuto distacco nei confronti del lettore.
La parola poetica è molto evocativa, richiama la natura in tutte le sue componenti con uno scopo ben preciso: quello di paragonarla agli uomini, renderla esempio di un comportamento affine. Siamo quindi petali in volo sparsi sulla terra, grazie a un lirismo sottolineato anche da Dante Maffia nella prefazione della raccolta.
Alla concretezza di metafore e similitudini si affianca una dimensione interiore molto privata, quasi spirituale, quando l’autrice si aggrappa alla mano del destino.
Apprezzabile è l’introspezione, come anche il tentativo di offrire una poesia che, seppur densa di significati, resta leggera, leggibile, scorrevole. Tuttavia, e questa è una considerazione del tutto personale, manca un po’ di coinvolgimento. Il lettore siede a guardare un film che scorre senza sentirsi pienamente fagocitato dalla storia. Questo purtroppo nuoce molto alla catarsi poetica, che forse è uno dei pochi ruoli ancora davvero intoccabili della poesia. Eppure le emozioni ci sono: c’è dolore, c’è tristezza. Ma si sente la necessità di uno stoicismo meno acuto. Soprattutto perché questa è una silloge promossa con il crowdfunding, alla ricerca di un sostegno che renda protagonisti i fruitori. La sofferenza è abile a scendere negli abissi dell’anima per poi risalire in bocca digerita. Dov’è quel fango, quel brutto, quel vero? È tutto molto contemplativo.
Le parole sono accanto, appunto. Non dentro. Ma il dentro serve, fa parte della condivisione. O anche la poesia diventa asettica.
Non si tratta ovviamente di una critica fine a se stessa, ma di un mero suggerimento da lettore a poeta. Chi ha il coraggio di verseggiare va supportato ma anche spronato a tirare fuori quell’unicità che ha dentro, che tutti hanno dentro, ma che pochi riescono a esprimere a parole. Zanarella ha qualcosa da dire, davvero, ma ancora non lo dice. È alla ricerca, sta temperando la punta della sua matita poetica.
Forse sarà una quête con una fine, forse no. Forse neanche auguro a Michela di arrivare a una vera e propria conclusione. Ma di trovare un punto, tra il detto e il non detto, dove il suo verso diventa universale. E quindi sentito. E poi, forse, anche immortale. Perché no.
Alessia Pizzi